L’attesa a volte può costare cara. Più aspettiamo a ridurre le emissioni di gas serra, più robusto sarà l’impatto sull’economia. È l’avvertimento lanciato dal Fondo monetario internazionale: il mondo dovrà ridurre le emissioni di almeno il 25% entro il 2030 (rispettando gli Accordi di Parigi) o non solo ci saranno conseguenze di lungo periodo, ma anche immediati e pesanti effetti sull’economia mondiale.
Il problema è che gli Stati Uniti sono sull’orlo della recessione, l’Europa è depressa dal costo dell'energia e la Cina è ancora ‘vittima’ dalle sue stesse politiche anti-Covid. Un quadro all’interno del quale aumenta la tentazione di posticipare le politiche climatiche. E qui casca l’asino (un detto che a dire il vero sottovaluta l’intelligenza del quadrupede), secondo il Fondo.
Non c’è, infatti, più spazio temporale per una transizione graduale. Ciò, invece, di cui abbiamo bisogno è un repentino cambiamento, i cui costi dipenderanno dalla velocità della transizione stessa, cioè da quanto rapidamente abbandoneremo carbone, petrolio e gas in favore di fonti meno inquinanti. Un passaggio ostico in un mondo che per i suoi consumi energetici si basa per il 77% sui combustibili fossili. Di questi il carbone è al 25%, nonostante le sue emissioni di gas serra siano doppie rispetto a quelle del metano.
Il ragionamento del Fondo è chiaro: tanto più lenta sarà la transizione, tanto maggiori saranno le tasse ambientali pagate dalle imprese e i sussidi pagati dagli Stati per accelerare nel futuro un cambiamento che ad oggi resta ancora troppo lento. Tradotto, più debito e meno crescita economica.