Il primo ottobre la Cina celebra il 70° anniversario della Repubblica popolare. Il che si traduce nel potere ininterrotto del Partito comunista cinese (Cpc) dal 1949. Ma la scenario potrebbe cambiare, nonostante l’ottimismo di Xi Jinping. Due fattori giocano in tal senso: le crescenti tensioni con gli Stati Uniti e il persistente rallentamento economico.
C’è, poi, la storia. Con i suoi corsi e ricorsi. Il Partito Rivoluzionario Istituzionale del Messico mantenne il potere per 71 anni; il Partito Comunista dell'Unione Sovietica governò per 74 anni; e il Kuomintang di Taiwan restò in carica per 73 anni. Il regime nordcoreano, sul podio da 71 anni, è l'unico competitor contemporaneo della Cina.
Ma, come detto, non c’è solo la storia: torniamo ai due fattori. Le condizioni che hanno permesso al regime di prosperare negli ultimi quattro decenni sono mutate. La più grande minaccia alla sopravvivenza a lungo termine del Partito risiede nella guerra fredda con gli Stati Uniti. Durante la maggior parte dell'era post-Mao, i leader cinesi hanno mantenuto un basso profilo sulla scena internazionale, evitando scrupolosamente i conflitti. Già nel 2010 la Cina era tuttavia diventata una potenza economica, perseguendo una politica estera sempre più muscolosa e suscitando l'ira degli Stati Uniti, che sono passati così a un approccio conflittuale.
Occorre, inoltre, considerare che il cosiddetto miracolo cinese è stato alimentato da un’imponente forza lavoro, da una rapida urbanizzazione, da investimenti su larga scala nelle infrastrutture, dalla liberalizzazione del mercato e dalla globalizzazione: tutti elementi che sono diminuiti o, in alcuni casi, scomparsi. Il rischio, per il Cpc, è assistere rapidamente al dissiparsi della propria energia, soprattutto se il Partito non riuscirà a garantire il miglioramento continuo degli standard di vita.