“Israele marcia verso la stagnazione economica”. L’avvertimento proviene dal più importante think tank del paese, l’Istituto nazionale di studi strategici (Inss) di Tel Aviv. In questo caso, non c’entrano i nemici storici, ovvero l’irrisolta questione palestinese e le minacce dell’Iran. La causa è la profonda instabilità interna, segnala Ugo Tramballi (Ispi).
Eppure solo l’anno scorso il paese aveva registrato una crescita del 6,4 per cento. Tuttavia anche la Banca centrale sostiene che, se passeranno le riforme che riducono il potere giurisdizionale a favore di quello esecutivo (volute dal premier Bibi Netanyahu), Israele perderà 13,7 miliardi di dollari l’anno per i prossimi tre anni. I cambiamenti legislativi e istituzionali, inoltre, “saranno accompagnati da un aumento del premio di rischio paese, un impatto negativo sull’export, un declino degli investimenti interni e della domanda nei consumi”.
Secondo Tramballi, sarebbe la fine di quella corsa iniziata all’inizio del secolo, che dieci anni dopo aveva aperto a Israele le porte dell’Ocse; e che nel 2021 aveva portato a un Pil pro-capite quasi doppio rispetto a vent’anni fa.
C’è poi un problema etnico legato al mercato del lavoro. Oggi l’hi-tech garantisce più della metà dell’export israeliano, il 45 per cento della crescita e il 35 dell’occupazione. Ma solo il 2,5 per cento dei lavoratori e il 4,7 delle lavoratrici sono ultra-ortodossi (che però formano circa il 13 per cento della popolazione; quota destinata a salire al 33 entro il 2065). Il Pil pro-capite degli israeliani ebrei era di quasi 49mila dollari nel 2018, quello degli arabi cittadini d’Israele di 17.627 e degli ebrei ultra-ortodossi di 15.188.