Danneggiato da decenni di instabilità politica e dal caos conseguito alla repressione della “primavera araba”, l’economia egiziana mostra segnali di miglioramento dopo l’erogazione del prestito di 12 miliardi di dollari dall’Fmi. Ma l’inflazione è arrivata alle stelle.
L’ultimo rapporto del Fondo narra di un paese “in pista”. Peccato che ciò non sia condiviso dalla maggioranza degli egiziani che dovranno decidere con il voto del 26-28 marzo se confermare il presidente Sissi.
Certo, quando è stato eletto nel 2014, l’Egitto era in bancarotta. Poi, negli anni successivi, sono venute meno le punte di diamante dell’economia egiziana: la riduzione nell’utilizzo del Canale di Suez, il turismo strangolato dal terrorismo e la produzione petrolifera in declino.
Di fronte a un disastroso deficit di bilancio (12% del Pil), Sissi si è arreso e ha deciso nell’agosto del 2016 di accettare il prestito di 12 miliardi di dollari dall’Fmi. E le relative clausole: Iva al 13% e fluttuazione della sterlina egiziana che però ha finito per perdere la metà del valore, passando da 8.8 a 18 sterline per un dollaro.
Il medico dice che la terapia è stata efficace. Il tasso di crescita sta accelerando, le entrate di bilancio sono aumentate, il disavanzo è stato ridotto, l’export è quasi raddoppiato in valore e la sterlina è stabile.
Questa narrazione rosea è, tuttavia, ridimensionata da un’inflazione galoppante. L’incremento annuo a luglio 2017 era stato pari al 35%. I prezzi di acqua potabile e benzina sono aumentati del 50%. Quello del propano è raddoppiato, così come pollo e riso mentre lo zucchero costa quattro volte di più.
Ma gli egiziani non reagiscono, paralizzati come sembrano dalla repressione che ha travolto il paese. Ecco allora che un alto tasso di astensione alle presidenziali potrebbe rivelarsi l’unica possibile espressione politica degli elettori.