Maggioranza sulle montagne russe. Va a un millimetro dalla spaccatura clamorosa sulla cosiddetta riforma della giustizia con l’astensione in sede di Cdm minacciata dai ministri 5S. Dopo ore di incontro tra gli stessi ministri da un lato, Draghi e la ministra Cartabia dall’altra, la lacerazione viene ricucita. Il nodo è l’obbligo per i processi d’appello di concludersi entro due anni e per la Cassazione entro un anno, pena l’improcedibilità, cioè la cancellazione del processo.
La formula che riporta la pace (apparente) nel Cdm è l’allungamento dei tempi per i processi contro la Pubblica amministrazione: concussione, corruzione, induzione alla corruzione, induzione a dare o promettere utilità. In questi casi l’appello dovrà svolgersi entro tre anni e la cassazione entro 18 mesi.
A spingere, affinché si trovasse un compromesso, è in particolare il premier. Mario Draghi ha fretta. Il rispetto della tabella di marcia è infatti fondamentale tanto per palazzo Chigi quanto per Bruxelles, che ha chiesto riforme in cambio del Recovery Fund.
Proprio poche ore fa il rapporto annuale della Commissione sulla giustizia nei diversi Paesi Ue ha letteralmente massacrato l’Italia, in particolare per i tempi eterni dei processi. Il commissario Reynders, presentando il documento, ha ricordato che l’Italia si è impegnata “a ridurre i tempi delle cause civili del 40% e di quelle penali del 25%”.
E qui siamo al punto. Che la giustizia italiana sia lenta, lentissima, è un fatto noto. Così come è altrettanto vero che l’inefficenza e l’inefficacia presentino risvolti pesanti anche per l’economia. Ma una riforma dovrebbe individuare le cause dei problemi e cercare di superarle. Ad esempio, aumentando il personale, digitalizzando seriamente il settore, predisponendo banche dati.
Invece, la riforma appena approvata in Cdm non contiene quasi nulla di tutto questo. Semplicemente aggira l’ostacolo, introducendo l’elemento chiave dell’improcedibilità (conclusione dei processi d’appello entro due anni ed entro uno per la Cassazione). È questo il provvedimento centrale che rischia di tradursi in un’ecatombe generalizzata, anche perché secondo i dati del ministero relativi al 2019 un processo di Appello dura in media in Italia 759 giorni, 29 in più del limite dei due anni entro il quale la norma passata in Cdm vorrebbe far morire i procedimenti.