Un anno di guerra e nessuna concreta prospettiva di pace all’orizzonte. Nonostante la mozione dell’Assemblea generale dell’Onu del 23 febbraio, l’Ucraina resta un campo di battaglia. Quella che coinvolge Kiev non è l’unica guerra in corso ed è vero che l’attenzione mediatica che ha ricevuto non ha eguali negli anni recenti, ma è altrettanto vero che lungo gli 800 km del fronte est, nella regione di Zaporizhzhia e nei pressi di Kherson le persone continuano a perdere la vita.
Una guerra in cui anche le (presunte) differenze culturali hanno giocato un duplice valore. Sono servite da scusa per l’invasione. Ora sono diventate il pilastro della propaganda del Cremlino che accusa l’Occidente di voler annientare la Russia. Invece, ad alimentare la linfa che nutre il demone del conflitto è solo l’interesse geopolitico ed economico dei principali attori sul campo (Russia, Stati Uniti, Cina) in un gioco al massacro in cui la guerra macina un’altra vittima, ovvero la verità, che continua anch’essa a morire ogni giorno.
In tale contesto, l’Ue è all’angolo: deve continuare a pagare per la guerra, aprire le porte dell’Ue a Kiev nonostante il paese (afflitto dalla corruzione) sia ancora lontano da molti standard comunitari e partecipare con un ruolo secondario alla ricostruzione dell’Ucraina, dove il dopoguerra sarà principalmente gestito dagli Usa e dagli Stati dell’Europa orientale. Ma, per l’Ue, rompere per sempre ogni relazione con la Russia è una prospettiva ragionevole per Bruxelles?