Washington si era appena sbarazzata della sue due “guerre senza fine” degli anni duemila, in Afghanistan e Iraq, ed ecco che si ritrova con due nuovi conflitti in cui ricopre un ruolo di primo piano (seppur indiretto) in Ucraina e Medio Oriente, mentre un terzo fronte è sempre sul punto di aprirsi con la Cina, nelle Filippine o a Taiwan.
È come se per l’America fosse impossibile liberarsi della funzione di gendarme (che è il suo marchio di fabbrica da mezzo secolo) e in ogni momento di tensione fosse in discussione la credibilità della potenza americana.
Nella ricomposizione sofferta degli equilibri del mondo, gli Stati Uniti figurano come leader grazie al loro status di superpotenza, ma lo fanno con tutte le contraddizioni che ne derivano e che per esempio gli impediscono di essere coerenti in Palestina come lo sono in Ucraina.
Questo ritorno dell’attivismo militare avviene mentre gli Stati Uniti sono in preda a un caos politico interno che durerà almeno fino alle elezioni del 5 novembre dell’anno prossimo. Un dato sembra invece più evidente: il resto del mondo evidenzia più di qualche dubbio sulle risposte fornite (rispetto ai problemi del mondo) da un’America sempre più incerta.