Dieci anni fa quell’aria che arrivava da Nord, dai Paesi della Primavera araba, e superava l’Equatore per soffiare la rivoluzione nell’Africa subsahariana, lo chiamarono harmattan, come il vento secco del deserto che con sabbia e polvere offusca il sole.
L’effetto domino dei moti di rivolta di Tunisia, Egitto, Libia, Algeria, si propagò ai Paesi subsahariani, dove le società civili, forti dell’esempio dei loro vicini, si mobilitarono. Ma, mentre nei Paesi arabi in poco meno di un anno le sommosse provocarono la caduta di quattro capi di Stato, sotto il Sahara quel vento del Nord soffiò forte solo in Burkina Faso: il presidente Blaise Compaoré, in carica da 27 anni, fu costretto alle dimissioni nel 2014.
Seguirono altre rivolte in tutta l’area sotto il Sahara, ma ci vollero anni per vederne gli effetti. L’accesso a Internet non era tanto diffuso come al Nord del continente. Il lento processo era tuttavia stato messo in moto. I cittadini di Senegal, Zimbabwe, Etiopia, Repubblica Democratica del Congo cominciarono a confrontarsi con i loro sovrani. Qualcosa da allora è cambiato. Ora, a dieci anni di distanza, sappiamo che la Rivoluzione Araba ha messo un seme anche a sud del Sahara e che la strada verso un’Africa che si autodetermina (non dall’alto) è ancora lunga.