L’art. 16 del Fiscal Compact (o Patto intergovernativo di bilancio europeo) stabilisce che entro cinque anni dalla sua entrata in vigore (ovvero entro il 1° gennaio 2018), sulla base di una valutazione della sua attuazione, i 25 Paesi Europei firmatari – tra cui l’Italia – siano tenuti a fare i passi necessari per incorporarne le norme nella cornice giuridica dei Trattati Europei.
Primo: scorporare gli investimenti pubblici dal computo del disavanzo. Una correzione che, rispetto alla finalità di assicurare la stabilità economica e la crescita dell’Unione, è assai più rilevante di quelle derivanti dal possibile allargamento del margine di deficit previsto dal Patto di stabilità e crescita. In una fase di crisi per sostenere l’attività dell’economia e l’occupazione occorrono robuste misure di struttura e non solo anticicliche.
Secondo: l’obbligo di pareggio strutturale dei conti pubblici. Il principio presuppone anzitutto la regolarità e l’equivalenza in durata delle fasi positive e negative o almeno la non prevalenza delle fasi recessive, cosa che allo stato attuale dell’economia globale è tutt’altro che scontata.
Anche l’obbligo per i paesi con un debito sopra il 60 per cento del PIL di ridurre l’eccedenza di un ventesimo ogni anno è discutibile. Quando venne istituito con il Trattato di Maastricht, il parametro del 60 era stato scelto perchè corrispondeva al valore medio espresso in quel momento dai Paesi aderenti all’Unione. Oggi, sarebbe ragionevole proporsi obiettivi più realistici.
Infine, nell’attuale fase di significativo alleggerimento del Quantitative Easing, l’auspicabile apertura a livello sia nazionale che europeo di una discussione seria e approfondita sul Fiscal Compact deve proporsi anche una riconsiderazione della missione istituzionale della BCE, tale da prevedere oltre a quello della stabilità della moneta anche l’obiettivo della minimizzazione della disoccupazione.
La doppia crisi che ha travolto l’economia europea nell’ultimo decennio ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che è proprio la macchina europea ad aver bisogno di profonde riforme strutturali. Riforme che, come mostrano i recenti studi effettuati nell’ambito dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, devono puntare al netto orientamento delle politiche economiche europee e nazionali verso un modello di sviluppo trainato dai salari, dai consumi interni e da nuovi investimenti.