Dopo più di un anno di guerra e 44 mila morti tra i palestinesi, la Corte penale internazionale ha spiccato i suoi primi mandati di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella Striscia e in Israele dopo il 7 ottobre 2023.
Nel mirino dei giudici della Camera preliminare sono finiti - su richiesta del procuratore capo Karim Khan - il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant (poi cacciato dallo stesso primo ministro), nonché il capo militare di Hamas, Deif (che Israele ritiene di aver ucciso in un raid a Gaza).
Al fianco di Israele si sono subito schierati gli Stati Uniti e l’Argentina. L'Ue, per voce dell'alto rappresentante per la politica estera uscente, Josep Borrell, ha invece difeso i giudici dell’Aja: la loro “non è una decisione politica, ma la decisione di un tribunale che deve essere rispettata e applicata”, ha detto, sottolineando che “la tragedia a Gaza deve finire”. Il diplomatico spagnolo ha quindi ricordato che si tratta di “una decisione vincolante” cui tutti i Paesi Ue devono adempiere.
I 124 Stati parte della Cpi che hanno aderito allo Statuto di Roma sono, infatti, obbligati ad eseguire i mandati d’arresto se un ricercato dalla Corte dovesse entrare nel loro territorio, compresi i capi di governo come in questo caso. Un obbligo che renderà molto difficile per Netanyahu (quantomeno) recarsi all’estero d’ora in poi anche nelle sue funzioni di primo ministro.