Se uno Stato viene sommerso dalle acque può continuare a essere considerato tale? La questione è sicuramente sul tavolo di Tuvalu, Paese costituito da nove atolli e 12mila abitanti nel sud del Pacifico diventata simbolo del cambiamento climatico.
Già oggi, nella stagione in cui la marea raggiunge il picco, il 40 per cento dell’atollo di Funafuti, la capitale, finisce sott’acqua. L’eccessiva salinità del terreno rende colture di base come taro, pompelmi e banane inadatti al consumo per gli esseri umani.
La storia di questo piccolo Stato non è, tuttavia, nuova. Sono trent’anni che Tuvalu lancia i propri gridi d’aiuto. Se il livello del mare continuerà a salire, la popolazione di Tuvalu sarà costretta a emigrare, ma per andare dove? Inoltre, quando l’acqua avrà inghiottito anche l’ultima striscia di terra, Tuvalu continuerà a esistere come nazione?
Dallo scorso primo Ottobre, nella costituzione dell’arcipelago c’è una nuova frase: il Paese (che si estende su 26 chilometri quadrati di terra) esisterà anche quando fisicamente non ci sarà più. E che, ribadisce spesso il primo ministro Kausea Natano, manterrà il diritto sulle acque circostanti l’attuale Tuvalu (l’arcipelago ne ha 800mila di territorio marittimo).
Anche gli altri Stati insulari del Pacifico stanno mappando i loro confini marittimi e le loro zone economiche esclusive (che dalle coste si estendono per 370 chilometri) affrettandosi a rimarcare che rimarranno tali indipendentemente dalle variazioni del livello dell’oceano.
“La nostra sovranità non è negoziabile”, ha ribadito Natano a settembre, a margine dell’ultima assemblea generale dell’Onu. Il diritto internazionale forse dovrà adeguarsi alle trasformazioni in atto.