Sette milioni di donne che non lavorano e neanche cercano lavorano. Il dato arriva da un’indagine Randstad, e si riferisce alla fascia di età compresa tra i 30 e i 69 anni. Un numero da brividi, che corrisponde al 43% della popolazione di quella classe di età, contro una media europea del 30%. Se poi si scende a livello nazionale emerge un quadro più duro: ad esempio, in Germania la percentuale è al 24% e in Svezia al 19%.
Secondo l’Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche), la ripresa della post pandemia è all’insegna della precarietà e della discontinuità occupazionale per le donne: sono a tempo indeterminato solo il 14% dei nuovi contratti e solo il 38% delle stabilizzazioni da altre forme contrattuali. Il 49,6% di tutti i contratti femminili, inoltre, è a tempo parziale, contro il 26,6% degli uomini.
Nel primo semestre del 2021 (ma la tendenza è in atto anche per i mesi successivi) i nuovi contratti attivati sono 3.322.634 di cui 2.006.617 a uomini e 1.316.017 (ossia il 39,6% del totale) a donne. Il 35,5% sono rivolti a giovani under 30, mentre oltre il 45% si colloca tra i 30 e i 50 anni senza rilevanti differenze di genere. Prevalgono per entrambi le forme contrattuali a termine, ma l’incidenza della precarietà e discontinuità per le donne è maggiore, con un ruolo prevalente della piccola impresa fino a 15 dipendenti.
“In questo anno e mezzo di pandemia le donne hanno dovuto affrontare uno stress test particolare dovendo moltiplicare gli sforzi e spesso trovandosi di fronte al bivio di scegliere tra lavoro e famiglia – ha spiegato Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp –. L’aumento delle diseguaglianze di genere è cresciuto e parte da un dato strutturale dell’occupazione che vede al 67,8% il tasso di occupazione degli uomini e al 49,5% quello delle donne.”