C'è qualcosa che per 40 anni è riuscito a tenere sotto controllo la disuguaglianza negli Stati Uniti. Dal 1940 al 1980, l'1% degli statunitensi più ricchi aveva il controllo sul 9% della ricchezza generata dall'economia. Oggi l'1% detiene il doppio.
Sorprendentemente, la causa di questa "Grande Compressione" della metà del secolo è stata largamente trascurata dagli economisti. Una teoria influente sostiene che sia stato l'aumento dell’offerta di lavoratori qualificati a frenare la crescita della disuguaglianza del reddito (fino al 1980).
Ma un nuovo studio, condotto degli economisti Henry Farber, Dan Herbst, Ilyana Kuziemko e Suresh Naidu, propone una nuova interpretazione: il motore di quella prosperità sarebbero i sindacati.
Prima di questa analisi, gli economisti hanno creduto che i sindacati aiutassero perlopiù i lavoratori qualificati, cioè quelli che già godevano di salari più alti. Altri studiosi hanno insistito sul fatto che l’appartenenza al sindacato è discriminante: chi è dentro è aiutato e chi è fuori no. Questa teoria implica che, dal momento che i sindacati si limitano a trasferire la ricchezza tra i lavoratori, non abbasserebbero le disuguaglianze complessive e potrebbero persino rallentare la crescita. La nuova analisi, tuttavia, respinge tutte queste supposizioni.
Se i sindacati avessero aiutato soltanto gli insider, non sarebbe stato possibile abbattere ogni indicatore di disuguaglianza economica. Ma è quello che è successo con il coefficiente di Gini. Così come non c’è alcuna correlazione negativa (dimostrata) tra presenza sindacale e crescita economica. In altri termini, non riducono il Pil.
Nonostante ciò, gli iscritti alle organizzazioni Usa che tutelano i lavoratori sono passati dal 30% nel 1955 all’attuale 10,7%. Il sindacato perde appealing e iscritti, ma la sua capacità (potenziale) di incidere sulla distribuzione del reddito è ancora lì. Occorre decidere se tornare a sfruttare a pieno questo “potere” oppure no.