Dopo la pandemia, negli uffici delle grandi multinazionali come in quelli delle piccole aziende, le cose non stanno ancora tornando come prima. Durante il lockdown molti lavoratori si sono trovati loro malgrado in piena rivoluzione-smart working, e ora non vogliono uscirne. In effetti lavorare da casa ha dei vantaggi, sia per il lavoratore che per l’azienda (che riduce i costi).
Così, proprio a causa del Covid19, molti si sono riappropriati di spazi che avevano dimenticato di avere. I nodi però vengono al pettine quando si ragiona sulle performance. Anche volendo ipotizzare una rivoluzione industriale 3.0 in cui parte del lavoro sarà svolta in ufficio e l’altra parte a casa, restano in piedi alcuni dubbi su come questa nuova era dovrebbe essere organizzata.
Un longform pubblicato da The Guardian fornisce una chiave di lettura sociologica al calo di produttività sulla lunga distanza. Lo smart working funzionerebbe benissimo se fossimo dei robot e se dovessimo inanellare una serie di azioni meccaniche una dopo l’altra. Il problema sorge quando il lavoro richiede una scintilla di qualche tipo. E occorre considerare che persino i lavori più meccanici richiedono qualche dote creativa, soprattutto per quanto riguarda la risoluzione dei problemi, idee che spesso nascono tra una chiacchiera e l’altra o alla macchinetta del caffè.
Per il sociologo spagnolo Daniel Beunza, lavorando da casa viene a mancare lo scambio accidentale. È questo ad esempio il caso delle riunioni su Zoom durante le quali le persone sono concentrate su un obiettivo specifico, il che conferisce loro una sorta di visione a tunnel del problema. L’uomo è d’altronde un animale sociale, e per quanto desideri l’indipendenza ha bisogno anche degli scambi per carburare ed essere produttivo. È questo l’aspetto che ci distingue dai robot che, secondo alcuni, minacciano di sostituirci.