Dopo nove mesi di consultazioni, il 28 ottobre la Commissione europea ha pubblicato una proposta di direttiva su “salari minimi adeguati””. Voluta dalla presidente Ursula von der Leyen, la proposta intende promuovere la contrattazione collettiva nei paesi europei e assicurare salari minimi adeguati, con poche eccezioni in termini di categorie di lavoratori esclusi.
Dal punto di vista politico, si tratta di un cambio di paradigma notevole, dopo decenni in cui l’attenzione era stata posta quasi esclusivamente sulla flessibilità salariale. Dal punto di vista pratico, gli effetti della direttiva, se approvata in questa forma da Consiglio e Parlamento europei, non saranno immediati. L’Ue non ha competenze in materia salariale. Ciò vuol dire che paesi come l’Italia, che non hanno un salario minimo definito per legge, non saranno obbligati a introdurlo.
E anche volendo, non sarà una passeggiata come suggeriscono alcune stime dell’Inps. “Se è ‘facile’ sostenere che il salario minimo deve essere di 8 o 9 euro (lordi) l’ora, meno semplice è chiarire quali elementi della retribuzione devono essere presi in considerazione - spiegano Andrea Garnero e Giulia Giupponi -. Solo il valore nominale lordo o anche la tredicesima (e l’eventuale quattordicesima), Tfr e contributi datoriali? Sembrano questioni tecniche di scarso interesse, ma fanno una differenza considerevole.”
“Se consideriamo il caso di un minimo di 8 euro, inoltre, osserviamo che l’esclusione delle componenti addizionali (che andrebbero quindi aggiunte al minimo) triplica il tasso di incidenza (ovvero i lavoratori interessati dalla misura) dal 4,7 al 13,8% - aggiungono i due economisti -. Con questa variazione, l’Italia passerebbe da paese con un tasso di copertura ben sotto la media, a essere il quarto paese per incidenza dopo Slovenia, Romania e Germania. Un salario minimo di 9 euro senza ultra-mensilità né Tfr porterebbe addirittura l’Italia in vetta alla classifica europea.”
La variabilità delle stime conferma la necessità di un supplemento di studio e ragionamento prima di procedere con qualunque iniziativa. E le parti sociali devono essere associate al processo. Ma qui emerge un altro problema. Nel nostro paese le parti sociali non sono così attratte dall’idea di introdurre il salario minimo. Le rappresentanze datoriali temono una crescita troppo ‘elevata’ dei salari, quelle dei lavoratori di vedere erodere il loro potere e ridimensionare l’importanza della contrattazione collettiva. Uno strumento quest’ultimo, occorre ricordare, che si è rivelato fondamentale per la tenuta complessiva del mercato del lavoro europeo.