Che l’occupazione giovanile in Italia versi in condizioni quantomeno difficili non è un fatto nuovo. Ma i numeri che emergono da un’analisi di Confcommercio sono ancora più sconcertanti. Due milioni e mezzo di giovani in meno al lavoro in quasi vent'anni nella fascia tra i 15 e i 34 anni. Nello stesso periodo è anche aumentata la quota di giovani inattivi (che non lavorano e non cercano un'occupazione) dal 40% al 50%.
Tra il 2004-2019 inoltre si riducono di oltre un quarto i giovani lavoratori dipendenti (-26,6%) e risultano più che dimezzati gli indipendenti (-51,4%). Le imprese giovanili sono scese in 15 anni di 156 mila unità, mentre sono 345 mila i giovani espatriati negli ultimi 10 anni.
Il confronto con gli altri paesi europei rende il quadro ancora più cupo. Negli ultimi vent’anni in Germania i giovani occupati sono diminuiti dieci volte di meno (-235 mila contro 2,5 mln). I Neet nel nostro Paese (giovani che non studiano, non lavorano e non si formano) fanno segnare il livello (record a livello europeo) di 2 milioni, pari al 22% dell’intera popolazione di quella fascia d’età (in Spagna sono il 15%, in Germania il 7,6%).
Presi per il PIL
Il motivo della grave situazione occupazionale dei giovani in Italia non va esclusivamente addebitata alla struttura dell’economia e alle scellerate scelte di politica economica prese dai governi che si sono succeduti negli ultimi venti anni. Le radici del problema affondano anche in ambiti intrafamiliari. I genitori italiani sono infatti tra i più generosi in ambito privato (ovvero sostengono lautamente i figli dal punto di vista economico laddove possibile) e tra i più egoisti sul mercato del lavoro. In pratica, tendono a mantenere le proprie posizioni anche ben oltre l’età pensionabile e a impedire la progressione professionale dei propri figli (e degli altri giovani) ai quali spesso non viene trasferito neanche il know-how. Una verità scomoda da raccontare. Ma tant’è.