Breve ma intenso: è durato poco meno di 24 ore. Lo sciopero che giovedì 3 ottobre ha visto decine di migliaia di portuali statunitensi della costa orientale e del Golfo del Messico incrociare le braccia per la prima volta in quasi mezzo secolo, si è infatti concluso in tempo di record con un accordo che accoglie quasi interamente le richieste di una delle poche categorie professionali ancora altamente sindacalizzate del paese.
I portuali chiedevano aumenti retributivi di quasi l’80% nei prossimi sei anni (la durata del contratto collettivo): un modo - sostengono - per ripartire equamente gli enormi extraprofitti accumulati da compagnie di navigazione e operatori portuali negli ultimi anni, specie durante il picco del Covid-19.
Dovranno, invece, “accontentarsi” di un +60% circa, che aumenterà la paga media a 63 dollari l’ora rispetto agli attuali 39.
Questo sciopero segnala che il perseguito decoupling dall’economia asiatica e i connessi programmi di reindustrializzazione a suon di sussidi e dazi hanno nell’inflazione il prezzo da pagare.
Decenni di importazioni cinesi a basso costo, che tamponavano la perdita di potere d’acquisto dei lavoratori americani colpiti dalle delocalizzazioni e spesso obbligati a riciclarsi nel terziario poco specializzato e sottopagato, hanno infatti assuefatto la prima economia al mondo a una dinamica deflattiva.
Dinamica che ha peraltro consentito alla banca centrale statunitense (Federal Reserve) di tenere bassi per anni i tassi di interesse, favorendo un indebitamento generalizzato con cui il paese ha in parte compensato la perdita di reddito.