Trump paladino dell'export statunitense nel mondo. Questa è l'immagine che il presidente degli Stati Uniti vuole dare di sé e questa risulta essere la sua immagine nel mondo. Ma è un’identità solo parzialmente corretta. Perché Trump non prova a difendere “tutto” l’export statunitense ma soltanto il comparto dei beni fisici. Che è fortemente minoritario in quanto a numero di lavoratori coinvolti.
Il manifatturiero, il minerario, le costruzioni, i settori appunto amati e protetti da Trump, contano 20,5 milioni di addetti contro i 105 milioni dei servizi nel loro complesso. E la dinamica del mercato del lavoro, con la crescita costante del non-manifatturiero, non potrà che far spostare a favore di quest’ultimo comparto il numero di addetti.
Eppure la politica commerciale del presidente americano, con il varo di dazi sui metalli in funzione primariamente anti-Cina (che entreranno in vigore venerdì 23 marzo) continua a guardare e privilegiare solo l’industria tradizionale.
E questo fa aumentare doppiamente le preoccupazioni degli occupati in aziende che hanno rapporti con l’estero, per esempio il colossale settore del turismo, oppure dei bancari, degli informatici, dei lavoratori del mondo del cinema e della musica, e di mille altre attività che non creano direttamente beni fisici ma che “vendono” anche all’estero.
Trump non solo non protegge le esportazioni dei servizi, ma rischia di danneggiarle: le ritorsioni della Cina e degli altri paesi eventualmente interessati da extra-tariffe degli Usa, potrebbero colpire proprio il vero maxi-comparto produttivo americano. E la sua forza lavoro.