Nel mondo si consumano 100 milioni di barili al giorno. La crisi del virus ha fatto scendere il dato a meno di 90 milioni. Di fronte a questo crollo (sebbene il dato resti molto elevato) è saltata nei giorni scorsi l’intesa che dal 2016 consentiva a Russia e Arabia Saudita di mantenere il prezzo tra 50 e 60 dollari al barile.
L’accordo è venuto meno perché russi e arabi si sono resi conto che, mentre loro tagliavano le produzioni per mantenere prezzi alti, gli Usa hanno continuato a produrre sempre di più, tornando a essere il primo paese produttore al mondo.
A quel punto la Russia ha deciso di non tagliare ulteriormente l’output e l’Arabia Saudita di aumentare la produzione di 2 milioni di barili al giorno. Risultato: domanda che crolla, offerta che esplode, e aumento esponenziale degli stoccaggi. L’ulteriore conseguenza è che i prezzi, in assenza di un nuovo assetto, non potranno che deprimersi anche sotto la soglia attuale di 23-25 dollari.
D’altronde, Riad e Mosca possono ‘accettare’ il petrolio a 20 dollari al barile, poiché a loro produrre un barile costa 2/3 dollari. Ma entrambi questi Paesi entrerebbero in una dinamica di elevato deficit di bilancio.
Per gli Usa questo scenario potrebbe aprire un altro tipo di problema. Ai produttori di ‘shale oil’ estrarre un barile costa 35 dollari. E poiché sono tutti molto indebitati con il settore creditizio, rischiano grosso. Il loro indebitamento totale è di oltre 100 miliardi di dollari: ecco perché il fallimento dei produttori di shale oil metterebbe in seria difficoltà il sistema finanziario non solo statunitense.