Non ci sono solo Ankara e Atene. I giacimenti di gas sul fondo del Mediterraneo fanno gola a molti governi e importanti compagnie petrolifere, tra le quali Eni, la francese Total, la statunitense Noble Energy, l’israeliana Delek e la russa Rosneft. Ma la scena è al momento occupata principalmente da Turchia e Grecia. Anzi da Recep Tayyip Erdogan e dal suo tira e molla.
“Il nuovo avviso ai naviganti sulle prospezioni a sud di Kastellorizo, nella piattaforma continentale greca, a sole 6,5 miglia nautiche dalle coste greche, rappresenta un elemento di grave escalation”, ha sottolineato il ministero degli Esteri di Atene.
Eppure pochi giorni fa i capi della diplomazia dei due paesi si erano incontrati a Bratislava e avevano concordato l’inizio di colloqui esplorativi. Poi la decisione turca di tornare all’attacco e la reazione ellenica. Per Atene Erdogan rappresenta il principale fattore di instabilità nella regione: dalla Libia all’Egeo, da Cipro alla Siria, fino all’Iraq e ora anche al Nagorno-Karabakh.
Ma su cosa basa il leader turco la sua strategia aggressiva nel Mediterraneo? C’è la dottrina ‘Patria blu’ che rivendica per il paese acque che i trattati internazionali di inizio ‘900 - siglati con un impero ottomano agonizzante - negano.