Presentato al Parlamento europeo (oggi, mercoledì 4 maggio) il sesto pacchetto di sanzioni economiche contro la Russia sulla scia dell’invasione dell’Ucraina. Uno dei punti riguarda l’embargo al petrolio russo da attuare entro 6 mesi: la Commissione europea ha proposto un divieto di acquisto graduale pur di assicurare la necessaria unanimità dei 27 al momento dell’approvazione delle nuove misure.
Il pacchetto, la cui adozione formale è attesa entro il 9 maggio, prevede inoltre l’esclusione da Swift, il sistema di messaggeria finanziaria, di tre istituti di credito, tra cui Sberbank, che controlla in Russia un terzo degli attivi bancari, e il divieto della trasmissione di tre emittenti pubbliche russe. “Non potranno più distribuire i loro contenuti nell’Ue, in qualsiasi forma, via cavo, via satellite, su internet o tramite applicazioni per smartphone”, ha spiegato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ritenendole “strumenti di propaganda”.
Ma torniamo all’oro nero. Nonostante le pressioni di Polonia e Stati baltici, si tratta dunque di un ban non immediato bensì graduale, con un periodo di transizione fino a fine anno. Abbastanza per dare il tempo a molti paesi europei, Germania inclusa, di completare il proprio percorso di diversificazione delle forniture. Negli ultimi mesi Berlino (il principale acquirente europeo di petrolio russo) ha già ridotto di un terzo la propria dipendenza da Mosca (dal 35% al 12%). Ma per sostituire del tutto gli oleodotti russi deve necessariamente ampliare i suoi porti. Insomma, non tutte le infrastrutture europee sono già pronte per un embargo. E alcune potrebbero non esserlo mai.
In tal senso, resta in bilico la posizione di Ungheria, Slovacchia e forse Bulgaria che potrebbero ottenere una deroga temporale più lunga o essere totalmente escluse dall’embargo. Dietro questo trattamento ‘particolare’, per Bratislava ci sono ragioni tecniche. Senza avere accesso al mare, e con impianti di raffinazione capaci di lavorare esclusivamente greggi pesanti come quello russo, non ci sono molte alternative a Mosca (da cui importa il 78% di petrolio). E convertirsi a petroli leggeri richiede almeno 4 anni. Per Budapest le motivazioni sono anche politiche: Orban riuscirebbe così a non scontentare l’alleato Putin, mentre la Commissione eviterebbe il possibile veto ungherese sul pacchetto di sanzioni.
Oltre ai nodi posti da Bratislava e Budapest, non tutti i paesi sono tuttavia concordi nel ritenere un embargo sul petrolio russo la soluzione migliore per danneggiare la Russia, come riporta l’Ispi. Se i prezzi del barile dovessero aumentare sensibilmente (come anche temuto dagli Stati Uniti), pur vendendone meno Mosca potrebbe guadagnare di più (o non perderci molto). E se i costi per la Russia sono incerti, quelli per l’Europa potrebbero essere rilevanti. Per questo motivo alcuni paesi, tra cui l’Italia, avrebbe preferito imporre un tetto massimo ai prezzi delle importazioni di greggio russo. Un’opzione, sostenuta anche dagli Usa, che per essere efficace dovrebbe però coinvolgere tutti i principali acquirenti di greggio russo e prevedere sanzioni contro i “trasgressori” non europei (come Cina o India). E qui si aprirebbe un altro scenario: le sanzioni secondarie. Queste sì che potrebbero infliggere un duro colpo all’economia russa e dei suoi (presunti) alleati, e non solo.
Anche se l’embargo europeo non è ancora in vigore, Mosca comunque sta già faticando ad esportare petrolio e carburanti nel Vecchio continente, dove fino a poco tempo fa piazzava un quarto dei suoi barili. E le mancate vendite non vengono interamente compensate da maggiori acquisti da parte di altri Paesi, come l’India o la Cina. Il risultato è che le compagnie russe, ormai a corto di spazio nei depositi di stoccaggio, stanno frenando la produzione. E lo stanno facendo in modo sempre più drastico. Mosca ha ammesso che la produzione petrolifera russa potrebbe ridursi del 17% quest’anno, un record dai tempi della disgregazione dell’Urss.