Con il recente ‘decreto Lavoro’ il governo ha varato una diminuzione del cuneo fiscale del 4 per cento, valida da luglio a dicembre, che si aggiunge alla conferma della sua riduzione del 3 per cento per redditi (al lordo dei contributi dovuti dal lavoratore) fino a 25mila euro e del 2 per cento per redditi (al lordo dei contributi del lavoratore) fino a 35 mila euro.
Ma attenzione. Il beneficio netto del lavoratore è decisamente minore delle cifre diffuse dal governo. La parte di cuneo fiscale che ricade sul lavoratore è data dai contributi a suo carico e dall’Irpef che paga sul salario al netto dei contributi.
Evidentemente, se il governo decide di diminuire i contributi dovuti dal lavoratore, aumenta il reddito imponibile ai fini Irpef e quindi l’imposta che il lavoratore deve pagare. La riduzione netta del cuneo è data dalla differenza tra lo sgravio contributivo e l’incremento di Irpef conseguente.
Il governo probabilmente confermerà per tutto il 2024 il beneficio mensile potenziato di luglio-dicembre 2023, che costerebbe circa 12,5 miliardi; a questi bisognerebbe poi aggiungere qualche miliardo per sterilizzare almeno l’incremento dell’Irpef.
Quindi, la diminuzione del cuneo fiscale non produce altro che un incremento del reddito nominale, che è necessario proteggere sterilizzando quella parte di aumento dell’Irpef che farebbe sì che il reddito netto aumentasse meno dello sgravio contributivo. Altrimenti, si perderebbe parte del recupero dell’inflazione che lo sgravio si propone di ottenere e saremmo di fronte al fenomeno del fiscal drag.
Quest’ultimo c’è solo per i salari, perché dipende dal fatto che la tassazione è progressiva e non proporzionale, com’è invece per i profitti e le rendite. Infatti, se il proprietario di una casa aumenta il proprio affitto ad esempio del 7 per cento per recuperare l’inflazione, dopo aver pagato la cedolare secca del 21 per cento, otterrà un incremento del canone netto esattamente pari al 7 per cento.