Con l’aumento dell’inflazione lo Stato ci guadagna (per ora). Ma rischia di essere un’illusione ottica

L’impatto dell’inflazione sui conti pubblici

Con l’aumento dell’inflazione lo Stato ci guadagna (per ora)

L’aumento improvviso dell’inflazione può, nel breve periodo, aumentare le entrate dello Stato rispetto alle spese primarie, con un miglioramento del saldo primario. Tuttavia, nel caso dell’attuale ondata inflazionistica questo non è avvenuto in Italia perché lo Stato ha aumentato in modo significativo le spese primarie per compensare parzialmente famiglie e imprese per l’aumento dei prezzi delle materie prime.

Anche così, l’inflazione inattesa migliora i conti pubblici attraverso un altro canale: l’erosione del valore reale del debito pubblico in circolazione. Un prestito contratto un anno fa per 100 viene rimborsato oggi a 100, ma a causa dell’inflazione i 100 rimborsati non valgono quanto i 100 inizialmente prestati: il risparmiatore ci perde e lo Stato ci guadagna. Naturalmente, se all’emissione l’inflazione era prevista, il risparmiatore è compensato della perdita attraverso il pagamento di un tasso di interesse più elevato. Ma ciò non avviene se l’inflazione è inattesa.

L’impatto dell’inflazione sui conti pubblici dipende però anche dalla presenza di titoli di Stato indicizzati all’inflazione del capitale e delle cedole. In questo caso l’investitore è protetto dagli effetti dell’inflazione sul rendimento dell’investimento; specularmente, lo Stato non ottiene alcun guadagno in termini reali. A fine 2021, i BTP indicizzati pesavano però solo il 10,9% dello stock di debito pubblico.

L’erosione del valore reale del debito pubblico – la cosiddetta tassa da inflazione – è calcolata (ex-post) come il prodotto tra il tasso di inflazione e lo stock di debito pubblico all’inizio del periodo considerato (escludendo i titoli di stato indicizzati).

D’altra parte, gli investitori, incorporando le aspettative di inflazione, richiedono rendimenti nominali più alti. Ciò comporta che lo Stato debba rinnovare i titoli in scadenza, o emettere nuovo debito, a tassi di interesse più elevati; di conseguenza aumenta la spesa per interessi. Tuttavia, solo i titoli emessi per rinnovare il debito in scadenza e per finanziare il nuovo deficit vengono emessi al più alto livello dei tassi, mentre l’inflazione erode il valore di tutti i titoli (non indicizzati).

Perciò, nel breve periodo l’aumento della spesa per interessi è piccolo e non compensa l’aumento della tassa da inflazione: in questo caso il rapporto debito/Pil si riduce. Con il passare del tempo e il progressivo rinnovo dei titoli a tassi di interesse che riflettono a pieno l’aumento dell’inflazione, l’effetto netto dell’inflazione sul rapporto debito/Pil tende a esaurirsi. Se poi, per ridurre l’inflazione, la Bce aumenta i tassi di interesse reali, l’effetto tende a invertirsi.

Nel caso dell’Italia, rispetto al quadro della Nadef (Nota di aggiornamento al Def), oggi il tasso di inflazione previsto (variazione del deflatore del Pil) è aumentato di 1,8 punti percentuali e i tassi di interesse di 2,5 punti. In seguito a questi aumenti, è possibile stimare una tassa di inflazione più alta di 43 mld, a fronte di un aumento della spesa per interessi di circa 8 mld (nell’arco di dodici mesi); quindi un effetto netto sul rapporto debito/Pil nel 2022 di 35 mld.

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