Non ci sarà, per ora, un nuovo default per l’Argentina. Sarebbe stato il nono per il paese sudamericano. In un comunicato il governo di Buenos Aires ha annunciato di aver raggiunto un accordo con i creditori internazionali per la ristrutturazione del debito.
In base all’intesa, è stata prolungata fino al 24 agosto la durata dell’offerta del paese sudamericano, che mira a scambiare obbligazioni estere per 66,238 miliardi di dollari. In particolare, i titoli di debito da ristrutturare, emessi nel 2005 e nel 2010 e a partire dal 2016, saranno scambiati con nuovi titoli in dollari ed euro con scadenze nel 2029, 2030 e 2038. Lo scaglionamento dei pagamenti è un po’ più favorevole ai creditori rispetto all’ultima bozza presentata inizialmente dal governo argentino.
La chiusura delle trattative dovrebbe consentire al governo del peronista Alberto Fernández di tornare ad accedere al mercato dei titoli di Stato. E spianerebbe la strada a un’intesa con l’Fmi per la rinegoziazione di altri 57 mld di esposizione. Cosa che il paese, se fosse dichiaratamente insolvente, non potrebbe fare.
L’Argentina è in recessione già dal 2018 ed è alle prese con un’inflazione schizzata alle stelle con i prezzi al consumo balzati del 50% nel 2019, il massimo degli ultimi 29 anni. Una situazione di crisi su cui si è abbattuta ora anche la pandemia.
I media argentini sono divisi, tra coloro che definiscono l’intesa un buon accordo (tra questi il ‘Clarin’) e altri (‘La Nacion’) che giudicano il risultato raggiunto come un passo indietro del governo di Buenos Aires che avrebbe ceduto alle richieste dei creditori.
Il punto fermo tuttavia era e resta un altro: serve un piano economico capace di far riprendere il paese. Ma gli attori in gioco (il governo di Buenos Aires, i suoi creditori, e l’Fmi) non sembrano avere una strategia efficace per generare una crescita economica (e uno sviluppo) sostenibile nel paese sudamericano.
E non sarà da solo il mercato a risolvere i problemi dell’Argentina. Servirebbe invece una strutturata strategia di politica economica basata più sulla sostituzione delle importazioni – in pratica la creazione di aziende manifatturiere locali che sostituiscano le importazioni dai paesi sviluppati e alimentino la loro crescita proteggendo il mercato interno – e meno su una crescita trainata dalle esportazioni, basata sui vantaggi comparati collegati a un’idea di manodopera a basso costo e materie prime non trasformate.