Le infezioni ospedaliere più frequenti sono quelle del tratto respiratorio (il 29,3% del totale), del tratto urinario (il 19,2%), e del sito chirurgico, cioè la parte del corpo operata (il 16,1%). Seguono le infezioni del flusso sanguigno (il 11,9% del totale) e le infezioni gastrointestinali (il 9,5%).
Si tratta dei dati pubblicati il 6 maggio scorso nel rapporto ‘Point prevalence survey of healthcare-associated infections and antimicrobial use in European acute care hospitals 2022–2023’ dall’ECDC e si riferiscono a 28 Paesi dell’UE/SEE più Kosovo, Montenegro e Serbia, per un totale di 293.581 pazienti considerati provenienti da 1.250 ospedali e 22.806 infezioni segnalate.
Il tema centrale è sempre la resistenza ai farmaci, sempre più frequente. Un terzo dei microrganismi esaminati fra quelli isolati è, in effetti, risultato resistente agli antimicrobici.
Restringendo l’analisi al nostro Paese, circa 19mila dei 293mila pazienti esaminati erano stati ricoverati in 58 ospedali italiani, e l’Italia si è confermata ben al di sopra della media quanto a percentuale di pazienti con infezione legata all’assistenza: il 9.8% rispetto a una media europea di poco meno del 7%.
Si può comunque fare qualcosa. L’ISS riporta che la trasmissione dei microrganismi si verifica soprattutto attraverso le mani degli operatori. Il lavaggio delle mani dopo l’assistenza di una persona e prima di assisterne un’altra è la pratica più importante per la prevenzione delle infezioni.
È molto semplice, a basso costo ed estremamente utile a limitare l’emergenza e la diffusione dei microrganismi responsabili di infezioni. Non solo il personale sanitario ma anche i visitatori sono tenuti a lavarsi le mani prima di ogni possibile contatto con la persona ricoverata.