Quella di Kamala Harris è una storia che comincia con Shyamala Gopalan, una donna che nel 1958, a 19 anni, lasciò l’India per gli Stati Uniti e diventò una delle prime indiane a iscriversi all’università della California a Berkeley. Arrivò negli Stati Uniti in un’epoca in cui le leggi sull’immigrazione imponevano quote rigide agli ingressi dall’Asia.
Nel 1963 sposò Donald Harris, un dottorando di Berkeley proveniente dalla Giamaica. Ebbero due figlie, Kamala (che vuol dire “fior di loto” in sanscrito) e Maya.
Fin da ragazza Kamala ha cercato di tenere insieme l’attivismo progressista con l’ambizione di fare strada nel mondo della giustizia, riuscendoci.
Harris è stata poi eletta in Senato nel 2016, nella stessa tornata elettorale in cui Donald Trump è diventato presidente, e ci è rimasta fino al 2021, quando è entrata in carica come vicepresidente.
Ma le sue scelte politiche sono state interpretate soprattutto sulla base di due incarichi precedenti, come procuratrice di San Francisco tra il 2004 e il 2011 e, poi, come procuratrice generale della California tra il 2011 e il 2016 (il procuratore generale è il responsabile dell’applicazione della legge in uno stato, ed è eletto dai cittadini ogni quattro anni).
Ad Harris sono state rinfacciate alcune scelte e posizioni assunte in quel periodo. Da procuratrice distrettuale di San Francisco si era vantata di aver portato in tre anni la percentuale di condanne dal 53 per cento al 67 per cento, il dato più alto del decennio.
Come procuratrice generale della California si era opposta alla scarcerazione anticipata dei detenuti condannati per crimini non violenti, sostenendo che gli istituti carcerari rischiavano di perdere “un’importante fonte di manodopera”.
Allo stesso tempo come procuratrice Harris ha sostenuto più volte le rivendicazioni dei lavoratori, durante la crisi finanziaria ha difeso le persone che rischiavano un pignoramento e ha appoggiato l’aumento del salario minimo a 15 dollari all’ora.
E, poi, ci sono le battaglie che Harris ha portato avanti nell’ultima parte del suo mandato di vicepresidente, a favore dei diritti della comunità lgbt+ e soprattutto in difesa dell’aborto.
Per i democratici la sfida sarà, per dirla con le parole di Dan Pfeiffer, direttore della comunicazione della Casa Bianca durante l’amministrazione Obama, “definire rapidamente il profilo politico di Harris prima che lo facciano i repubblicani”.
Secondo il giornalista John Hendrickson, “Harris sta ancora cercando di capire la sua personalità politica e non è magnetica sul palco; forse non sarà mai una ‘rockstar’ della politica come Barack Obama e Bill Clinton. Ma sembra molto più convincente e competente di Trump, e di Biden”.