Siamo sicuri che l’aumento dei tassi di sconto (così si definiscono i tassi di interesse fissati dalle banche centrali e che determinano il costo del denaro per le banche) riduca l’inflazione?
Ad insinuare il dubbio è l’economista Emiliano Brancaccio. In realtà – scrive - non sussiste una chiara evidenza scientifica di relazioni stabili tra rialzo dei tassi e declino dei prezzi. Gli economisti lo sanno, tanto che la maggior parte di loro ritiene il canale di trasmissione che va dall’uno all’altro irto di ostacoli, se non in alcuni casi contraddittorio.
È una questione di punti di vista. Per molte aziende il tasso d’interesse rappresenta un costo, e quindi un suo aumento può tradursi non in una riduzione ma persino in un incremento dei prezzi.
Intendiamoci, se il rialzo dei tassi è particolarmente veloce e rilevante, l’inflazione diminuisce come conseguenza del crollo dell’economia che fa aumentare la disoccupazione e quindi diminuire i salari, infine induce una discesa dei prezzi (ma solo perché nel frattempo il paziente malato è diventato morente).
Un percorso vizioso in cui la correlazione tra tassi e inflazione non è diretta, semmai è indiretta. In effetti – aggiunge Brancaccio - “i banchieri centrali non puntano a governare l’inflazione, ma semplicemente rimediare ad essa. Il loro interesse è rivolto soprattutto ai danni che l’inflazione arreca ai capitalisti in posizione di credito. L’aumento dei prezzi riduce il valore reale dei rimborsi e degli interessi che i creditori si attendono dai loro debitori”.
Per compensare tali perdite, i creditori chiedono allora una politica monetaria di aumento dei tassi di interesse. “Alla fine la voce dei creditori prevale e la banca centrale aumenta i tassi di interesse, agendo in sostanza come una scala mobile dei capitalisti in posizione di credito”.
Quello interno alla Bce, dunque, non è uno scontro tra chi intende combattere l’inflazione e chi vuole evitare la recessione, ma uno scontro politico tra due fazioni: quelli in posizione di debito che invocano tassi bassi e quelli in posizione di credito che li vogliono alti.
In questa lotta tra debitori e creditori – chiarisce l’economista - “la collocazione macroeconomica dell’Italia è duplice. Da un lato, il nostro è un capitalismo assistito che anche per questo accumula un ingente debito, privato e soprattutto pubblico.
Dall’altro lato, però, questo paese ha attuato un’austerity così violenta da schiacciare i redditi interni e quindi anche le importazioni di merci dagli altri paesi, con la conseguenza che da qualche anno siamo diventati creditori netti verso l’estero”. Ecco perché la posizione da assumere non è così scontata per il governo.