Negli ultimi mesi, la Banca centrale europea (Bce), l’Ocse, la Banca dei regolamenti internazionali (Bri), il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Commissione europea hanno pubblicato studi e valutazioni che sono tutti giunti alla stessa conclusione: l’aumento fuori controllo dell’inflazione è stato spinto in modo rilevante dall’incremento dei profitti accumulati in alcuni settori economico-produttivi, poiché le aziende hanno aumentato i prezzi in misura superiore all’aumento dei costi.
Come mai c’è voluto così tanto per comprenderlo? Come ha spiegato lo scorso 5 giugno la presidente della Bce Christine Lagarde, “non disponiamo di dati sui profitti come sui salari”. L’ammissione è frustrante specialmente in tempi di intelligenza artificiale. E poi perché eravamo stati avvertiti a tempo debito: 250 anni fa, Adam Smith aveva messo in guardia sul fatto che i profitti possono determinare pressioni sui prezzi.
Alcuni potrebbero obiettare che proteggere i margini dagli shock dei costi è un normale comportamento aziendale. Il punto è che oggi le aziende hanno esagerato. Si può prendere ad esempio quanto avvenne nel 1973 in coincidenza con il primo shock petrolifero. Allora, come evidenzia l’Fmi, il fattore lavoro riuscì a respingere in qualche modo lo shock; oltre al petrolio stesso, l’aumento dei prezzi fu guidato quasi esclusivamente dall’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto a fronte di una diminuzione dei profitti.
Oggi il processo si è invertito: secondo l’Fmi i profitti rappresentano il 40 per cento dell’inflazione e, insieme ai prezzi all’importazione, hanno sostituito il costo del lavoro come motore principale dell’incremento dei prezzi al consumo. Inoltre, come conferma la Bri, i salari reali sono scesi più che nelle fasi passate caratterizzate da alta inflazione. Le vecchie ipotesi basate sulla curva di Phillips (in cui si teorizza un trade-off tra inflazione e disoccupazione), come ben dovrebbero sapere gli economisti, sono ormai superate dall’evidenza empirica.
Se la diagnosi è finalmente corretta, resta il problema di una terapia inefficace se non dannosa. Allo stato attuale, la prescrizione standard per affrontare l’inflazione è ancora quella di aumentare i tassi di interesse, anche se ciò implica un aumento della disoccupazione e aumenta il rischio di recessione e instabilità finanziaria. Ma il punto è che non esiste una relazione diretta tra l’aumento dei tassi di interesse e la compressione dei margini di profitto.
Nel frattempo, come hanno osservato alcuni analisti di Wall Street, il “prezzo sul volume” è ormai diventata una diffusa strategia aziendale. Invece di abbassare i prezzi e aumentare il volume, molte aziende compensano il volume inferiore aumentando i prezzi; in questo contesto, è improbabile che mirare a una domanda più bassa arresti l’inflazione.
Tutto lascia pensare che è arrivato il momento di riconoscere che il ricorso a tassi di interesse più elevati non è altro che una strategia per scaricare i costi dell’inflazione sul lavoro (riducendo i salari), sui programmi sociali (attraverso l’austerità) e sulle generazioni future (scoraggiando gli investimenti).
Occorre invece una nuova strategia volta a disciplinare i profitti fuori controllo, incentivare gli investimenti, aumentare la produttività e incoraggiare semmai le aziende a fare soldi alla vecchia maniera: vendendo più prodotti a prezzi equi. A volte fare un passo indietro è il modo migliore per andare avanti.