Gli Stati Uniti stanno conducendo una guerra economica contro un decimo dei paesi del mondo che contano una popolazione complessiva di circa 2 miliardi di persone e Pil combinato di oltre 15 trilioni di dollari. Tra gli Stati troviamo Cina, Russia, Iran, Pakistan, Turchia, Venezuela, Cuba, Sudan, Zimbabwe, Myanmar, Repubblica Democratica del Congo e Corea del Nord. La valutazione è di Gal Luft, condirettore dell’Istituto per l’analisi della sicurezza globale e componente del Consiglio per la sicurezza energetica degli Stati Uniti.
È proprio l’estensione del conflitto, secondo Luft, che potrebbe ritorcersi contro gli Usa. Molti paesi si stanno infatti coagulando per creare un sistema finanziario parallelo che sarebbe fuori dalla portata statunitense. Se dovessero riuscirci, l’impatto sull’economia globale sarebbe “rivoluzionario”.
La supremazia globale americana è stata resa possibile non solo grazie alla sua potenza militare e al sistema di alleanze, ma anche grazie al controllo esercitato sulla finanza globale e in particolare all’ampia accettazione del dollaro come valuta di riserva mondiale e mezzo di pagamento internazionale. Qualsiasi transazione effettuata in dollari statunitensi o utilizzando una banca Usa fa ricadere automaticamente le parti sotto la giurisdizione legale di Washington. Quando gli Stati Uniti decidono di imporre sanzioni unilaterali, come nel caso dell’Iran, stanno comunicando due opzioni al resto del mondo: interrompere gli affari con il paese sanzionato o essere "ghettizzati" dalla prima economia mondiale.
Ecco perché sia la Russia che la Cina hanno sviluppato le proprie versioni della Società per le telecomunicazioni interbancarie mondiali (Swift), la rete globale che consente le transazioni finanziarie transfrontaliere tra migliaia di banche. Entrambi i paesi stanno spingendo anche i loro partner commerciali a sbarazzarsi del dollaro negli scambi bilaterali.
Al vertice Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) del mese scorso a Johannesburg è stato lanciato un appello contro l’egemonia del dollaro e invitato altri paesi - Turchia, Giamaica, Indonesia, Argentina ed Egitto - ad unirsi in quello che è noto come “Brics Plus” con un obiettivo dichiarato: creare un’economia de-dollarizzata. Anche Pakistan e, ovviamente, Iran hanno annunciato di voler rinunciare al dollaro come moneta di riferimento.
Il fronte principale in cui verrà deciso il futuro del dollaro è il mercato globale delle materie prime e, in particolare, del petrolio che da solo vale 1,7 miliardi. Sin dal 1973, quando il presidente Richard Nixon convinse i sauditi e il resto dei paesi Opec a vendere il loro greggio solo in dollari, il commercio mondiale di petrolio è stato collegato alla valuta americana. Questo ha spianato la strada affinché anche il resto delle materie prime venisse scambiato in dollari. L’accordo ha creato una domanda verso il biglietto verde in crescita costante, che a sua volta ha consentito ai governi statunitensi consecutivi di gestire liberamente i loro deficit crescenti.
Ma adesso qualcosa potrebbe cambiare, anzi sta già cambiando. Molti dei membri dell’alleanza anti-dollaro sono esportatori di materie prime e ora non ritengono più che i loro prodotti debbano essere prezzati da un benchmark denominato in dollari (come Wti e Brent). Ad esempio, quando la Cina acquista petrolio dall’Angola, gas dalla Russia, carbone dalla Mongolia o semi di soia dal Brasile, preferisce (ora) farlo nella propria valuta e, quindi, evitare commissioni di cambio su entrambi i lati della transazione. Pechino sta inducendo i principali fornitori di petrolio (tra i quali Arabia Saudita, Angola e Iran) ad accettare yuan in cambio del loro petrolio. E lo scorso anno la Cina ha introdotto contratti futures garantiti dalle riserve di oro, soprannominati “petro-yuan”, allo Shanghai International Energy Exchange – il primo benchmark dell'oro nero non espresso in dollari.
Sono tutte azioni che sembrano mirare a un fine comune: erodere l’egemonia del dollaro.