Quando il governatore numero trenta della Bank of Japan, Masaaki Shirakawa, si insedia nel 2008, il suo primo atto è ridurre a zero i tassi. Ma la scelta non è azzeccata e non funziona, perché la deflazione del Giappone non è un fenomeno monetario, ma un effetto collaterale del successo nella modernizzazione dell'economia. A cui occorre aggiungere l’invecchiamento demografico che contribuisce a ridurre i consumi.
Pochi anni dopo l’attuale governatore, Haruhiko Kuroda, si è ritrovato a confermare questa analisi, anche se vorrebbe, invece, svezzare il paese dall’eccessivo stimolo monetario a cui è stato sottoposto nell'ultimo quarto di secolo. Ma il sogno si è trasformato in un brusco risveglio quando nei giorni scorsi la Banca centrale ha tagliato le stime sull'inflazione per il 2018 e il 2019 dall'1,8 all'1,5% e dall'1,3 all'1,1%. Ha, inoltre, deciso di mantenere la propria politica accomodante, visto che l'obiettivo del 2% resta ancora lontano dopo 5 anni di misure straordinarie. I tassi di interesse al momento negativi, resteranno ancora "molto bassi". Altro che svezzamento.
Gli ostacoli nel frattempo aumentano. Anche prima che Donald Trump lanciasse i primi segnali su una possibile guerra commerciale con Pechino, l’economia nipponica stava perdendo slancio. Oltre alle difficoltà macroeconomiche Kuroda si trova a dover affrontare un'ulteriore sfida: una Cina in rapida espansione e la sua crescente influenza. Ma, ancor prima, Tokyo deve prestare attenzione alle proprie lezioni passate se vuole progettare un futuro più vibrante.