L’inflazione in tutti i Paesi del G7 è salita ai massimi livelli mai toccati da diversi decenni. Tuttavia, mentre negli Stati Uniti o nel Regno Unito si attesta su percentuali allarmanti, comprese tra l’8 e il 9%, l’incremento dei prezzi al consumi in Giappone non è andato oltre il 2,5% ad aprile (ma escludendo l’impatto di cibo ed energia, l’inflazione è salita solo dello 0,8% rispetto all’anno precedente), al netto dell’eccezione costituita dal settore ittico.
E mentre la Federal Reserve statunitense e la Bank of England si stanno affrettando ad aumentare i tassi di interesse, con la Bce che si appresta (forse a luglio) a fare lo stesso, la Bank of Japan ha spiegato che intende tirare dritto, acquistando tutte le obbligazioni di cui ha bisogno per mantenere i rendimenti a 10 anni fissati allo zero per cento.
Una differenza che illustra la tendenza nella psicologia inflazionistica del Giappone, dopo tre decenni di stagnazione dei prezzi. Anche se il Giappone è fortemente esposto ad alcuni degli stessi shock di altri paesi, in particolare l’aumento del costo delle materie prime importate, non c’è stato quasi alcun passaggio dall’aumento dei prezzi a quello dei salari.
Al contrario, la mentalità deflazionistica significa che la pressione tende ad andare in altre direzioni. Negli Stati Uniti e in Europa, solitamente, le aziende rispondono all’aumento dei prezzi delle materie prime trasferendo i costi sui consumatori.
In Giappone, invece, le imprese temono un contraccolpo negativo sul pubblico se aumentassero i prezzi, in un contesto nel quale i salari sono stagnanti da decenni. Se le aziende nipponiche devono pagare di più per le importazioni ma non possono aumentare i loro prezzi al dettaglio, rischiano comunque di subire una compressione dei profitti. E allora reagiscono cercando di ridurre i costi salariali, creando una pressione deflazionistica e non inflazionistica.