Sul finire degli anni '80 la Francia introdusse il reddito minimo di inserimento (Rmi), misura poi applicata in quasi tutti i paesi dell'Ue. Ci sono voluti trent'anni per veder attuata in Italia una misura apparentemente simile, nella sostanza diversa, il reddito di inclusione (Rei). Gli importi sono inferiori, non copre tutti i bisognosi, il reinserimento nel mercato del lavoro non funziona.
Tuttavia, i beneficiari sono stati nel primo trimestre dell’anno 900 mila e sette su dieci risiedono al sud. In soli tre mesi sono stati raggiunti 250 mila nuclei familiari, la metà dell’obiettivo del governo, cioè 500 mila famiglie entro luglio, corrispondenti a 1,8 milioni di persone.
Il Rei è di fatto una misura di reddito minimo, inteso come strumento di sostegno al reddito di ultima istanza, al pari di quello proposto dai 5stelle, più “generoso” ma pur sempre un reddito minimo. Si tratta di una misura selettiva erogata a fronte di un piano di attivazione del beneficiario. Il reddito di cittadinanza è, invece, una misura universalistica erogata a tutti i cittadini indipendentemente dalla loro condizione socio-economica.
E proprio di quest’ultima misura si ricomincia a parlare sempre più. La crisi ha fornito nuova linfa ai sostenitori del reddito di cittadinanza in tutta Europa. Il consenso è tornato crescente e si sta diffondendo a macchia di leopardo in tutte le economie avanzate. La Finlandia lo sta sperimentando e, un pò a sorpresa, lo schema ha incassato l’approvazione anche di alcuni big dell’economia mondiale, che hanno fatto fortuna con la globalizzazione e ora si dicono pronti a restituire qualcosa. In realtà il timore che li pervade è la creazione di nuova disoccupazione strutturale a causa della digitalizzazione e dell’automazione delle economie. Un rischio che sarebbe meglio per tutti evitare.
In effetti sono sempre più numerosi i segnali che vanno in quella direzione. Non perché l’automazione distrugga il lavoro, ma per un insieme di fattori. Il che non è grave visto che sono, o meglio sarebbero, numerosi gli strumenti di politica economica disponibili per gestire l’impatto dell’innovazione sul lavoro, a partire dalla formazione continua e dalla riqualificazione professionale.
Ma i governi delle economie avanzate sembrano aver dimenticato come si crea lavoro e come mantenerlo relativamente stabile. Sembrano far finta di non capire che non serve tanto cambiare le regole del mercato del lavoro, ma è più fruttuoso puntare sulle politiche che stimolano la crescita, principalmente investimenti e istruzione.
Così, anziché mirare all’aumento dei tassi di occupazione, provando a gestire e non subire il cambiamento indotto dall’automazione, si fa strada l’idea di introdurre il reddito di cittadinanza. Il che significherebbe aver accettato l’idea che le società del futuro possano essere costituite da una piccola quota di forza lavoro effettivamente occupata e una maggioranza destinata a (soprav)vivere con cifre variabili tra 300 e 1.000 euro. Una finta libertà.