Il modello politico cinese ha numerosi punti di debolezza. Il regime si avvicina sempre di più a una dittatura digitale, talmente perfetta che nessuno vuole somigliarle. Il modello di governo all’interno del partito è ancora meno convincente visto che non lascia alcuna traccia all’esterno, mentre tutti possono osservare il sistema di sorveglianza generalizzata attivo sui social network, la repressione dei dissidenti e delle minoranze, lo stravolgimento del processo elettorale a Hong Kong e le minacce contro Taiwan. A tutto questo bisogna aggiungere la forte crescita delle disuguaglianze, e il sentimento d’ingiustizia sociale non potrà essere sempre risolto con qualche eliminazione mirata.
Ma, nonostante queste debolezze, Pechino ha dei punti di forza: quando arriveranno le catastrofi climatiche potrà facilmente sottolineare le responsabilità delle vecchie potenze, che rappresentano una parte ridotta della popolazione mondiale ma hanno prodotto quasi l’80 per cento delle emissioni di anidride carbonica accumulata dall’inizio dell’era industriale.
Inoltre la Cina ricorda che si è industrializzata senza fare ricorso allo schiavismo e al colonialismo, di cui ha subìto le conseguenze. Non ha l’eterna arroganza dei paesi occidentali, sempre pronti a dare lezioni al mondo in materia di giustizia e di democrazia ma incapaci di affrontare disuguaglianze e discriminazioni, e disposti a compromessi con gli oligarchi.
Dal punto di vista economico e finanziario, lo stato cinese ha risorse considerevoli, molto superiori ai suoi debiti, cosa che gli permette di avere una politica ambiziosa sul piano interno e su quello internazionale, in particolare sugli investimenti nelle infrastrutture e nella transizione energetica.
Attualmente il potere pubblico ha il 30 per cento di tutto quello che si può possedere in Cina (controlla il 10 per cento del settore immobiliare e il 50 per cento delle aziende), il che corrisponde a una struttura di economia mista non lontana da quelle viste in occidente durante gli anni del boom economico, tra il 1945 e il 1975. Al contrario è incredibile constatare che i principali stati occidentali si ritrovano oggi con risorse patrimoniali quasi nulle o addirittura in debito. Incapaci di far quadrare i conti pubblici (serviva una maggiore pressione fiscale sui contribuenti più ricchi), questi paesi si sono indebitati sempre di più e hanno messo in vendita una parte crescente delle risorse pubbliche.
In pratica, i paesi ricchi sono ricchi nel senso che i patrimoni privati non sono mai stati così grandi, ma gli stati sono poveri. Solo a questo prezzo infatti si potrà portare avanti un’ambiziosa politica d’investimento nell’istruzione, nella sanità, nell’ambiente e nello sviluppo.
Bisogna inoltre togliere i diritti di copyright sui vaccini, condividere le entrate delle multinazionali con i paesi del sud del mondo e mettere le piattaforme digitali al servizio dell’interesse generale. Bisogna promuovere un nuovo modello economico fondato sulla condivisione del sapere e del potere a tutti i livelli. Il neoliberismo, lasciando il potere ai più ricchi e indebolendo i poteri pubblici, non ha fatto altro che rafforzare il modello cinese. È tempo di passare a qualcosa di diverso.
In questo articolo sono stati riportati i passaggi principali di un’analisi firmata dall’economista Thomas Piketty e pubblicata su Internazionale.