Nel 2003 gli Usa hanno prodotto 20 volte più articoli ad alto impatto rispetto alla Cina, nel 2013 appena 4 volte e, infine, nel 2022 Pechino ha superato sia gli Stati Uniti sia l’intera Ue.
La Cina è oggi un importatore netto di scienziati. Dalla fine degli anni 2000, sono più gli scienziati che rientrano nel Paese che quelli che ne escono; inoltre, nel 2020 le università cinesi hanno rilasciato 7 volte più lauree in ingegneria rispetto agli Stati Uniti.
Uno dei risultati è che nel 2021, su 1.608.375 brevetti in diversi settori, l’87% è stato concesso a innovatori di soli 6 Paesi: Cina (37,8%), Stati Uniti (17,8%), Giappone (16%), Corea del Sud (9,85%), Germania (4,3%), e Regno Unito (1,2%).
Tutto questo è avvenuto grazie al fatto che “la spesa della Cina per ricerca e sviluppo è cresciuta di 16 volte dal 2000” (come evidenzia The Economist) e non mostra alcun segno di arresto, mentre la spesa degli Stati Uniti, come anche quella dell’Europa, è praticamente in stallo.
Nel suo rapporto Mario Draghi evidenzia questo divario ma, invece di proporre di risollevare l’intero sistema della ricerca, consiglia di coltivare le sole eccellenze: una ricetta vecchia e fallimentare già applicata sia nel nostro Paese sia in Europa.
La strada da percorrere deve essere invece quella di sviluppare le forze intellettuali e culturali del Vecchio continente rafforzando il sistema universitario nella sua interezza e cercando di costruire ponti anche con la maggiore super-potenza scientifica mondiale, cioè con la Cina.