
Come ormai noto, questi sono gli elettori di Trump: sono il 38% degli statunitensi che non possiedono azioni quotate alla Borsa di New York e non hanno altro che debiti (sulla casa, sulla carta di credito o per aver mandato il figlio al college). Sono coloro che fanno sì che per le famiglie (nel loro complesso) negli Usa il costo sugli interessi sui debiti sia pari al 10% del reddito disponibile, secondo il fondo d’investimento Citadel.
A questa parte dell’America non importa se gli indici di Wall Street crollano a causa dei dazi, perché comunque non possiede azioni di Amazon, Microsoft, Tesla o di qualunque altra società. Questa America indebitata e senza risparmi apprezza invece un altro aspetto finanziario legato a Trump: da quando è tornato lui alla Casa Bianca il costo dei loro debiti è sceso, perché è sceso il rendimento dei titoli del Tesoro Usa.
Quel che sfugge è che questo calo del costo del debito non è dovuto al risanamento dei conti. È dovuto al clima recessivo instauratosi nel Paese.
Poi c’è l’altra America: il 62% della popolazione che detiene azioni quotate a Wall Street. Sono 162 milioni di americani. Dal giorno del giuramento di Trump, queste persone hanno perso in media 47.500 dollari di risparmi per ciascuna a causa dei crolli delle borse. Questo vale anche per le molte decine di milioni di americani che sono esposti agli indici azionari solo perché i loro fondi pensione sono in gran parte investiti su di essi.
Da notare che questa America con azioni nei conti di risparmio – soprattutto il 10% più ricco – a differenza dei diseredati non ha subito alcun danno dai deficit commerciali sui beni: la deindustrializzazione non li riguarda perché loro sono medici, avvocati, persone di finanza, tecnologia o università.
Al contrario loro hanno tratto vantaggio dal crescente surplus degli Stati Uniti nei servizi digitali con il resto del mondo (arrivato a 128 miliardi di euro con la sola Eurozona nel 2023). Queste persone infatti hanno azioni di Amazon, Nvidia, Microsoft, Facebook-Meta o Google-Alphabet o magari lavorano per quei colossi, che in parte importante realizzano i loro fatturati all’estero.
Non stupisce che queste due Americhe – quella con debiti in banca e quella con azioni di Wall Street – vedano il resto del mondo in maniera totalmente diversa. Alla prima America non interessa, alla seconda sì.
La prima America opera soprattutto nei servizi locali non specializzati ed è protagonista della grande economia più chiusa al mondo: il commercio estero per gli Stati Uniti vale appena il 25% del Pil, contro il 66% dell’Italia, il 45% del Giappone e il 37% della Cina.
La seconda America dipende invece per la propria ricchezza dalla fortuna delle società quotate a Wall Street, dove quattro dollari ogni dieci dei gruppi dello S&P500 viene guadagnato all’estero.
In sostanza, negli Usa coesistono due mondi diversi. Nell’alzare il muro dei dazi, Trump ha voluto fare gli interessi della parte più debole: le vittime e non i vincenti della globalizzazione.
Ma, probabilmente, non funzionerà. A questo punto, una recessione targata Trump è quasi inevitabile. Ma i consumi rappresentano ben oltre due terzi dell’economia americana. Una loro caduta sarebbe una pessima notizia anche per il resto del mondo: i consumatori statunitensi, da soli, fanno girare quasi un quinto dell’intera economia internazionale.