C’è un libro dell’economista francese Thomas Philippon, The Great Reversal, cioè il grande capovolgimento, che sta facendo discutere. Il capovolgimento al centro dell’analisi è quello della concorrenzialità dei mercati Usa ed europei.
Philippon racconta del suo arrivo a Boston, nel 1999, da studente di dottorato e della sua sorpresa nel vedere che i computer portatili, gli abbonamenti per l’accesso a Internet, i voli erano molto più a buon mercato che in Francia. La ragione era semplice: quei mercati erano più concorrenziali negli Usa che in Europa.
A partire dagli anni Duemila le cose, però, hanno iniziato a cambiare. Nei primi capitoli, il libro mostra che in America i mercati sono diventati progressivamente più concentrati. Ma la concentrazione – nella visione di Philippon – è come il colesterolo: può essere buona o cattiva. È buona se deriva o porta maggiore efficienza. È cattiva quando è dovuta a comportamenti predatori o alla presenza di barriere all’entrata.
Come si fa a distinguere tra le due possibilità? Se la concentrazione fosse dovuta a maggiore efficienza, dovremmo averne segnali in termini di investimenti e maggiore produttività. Analizzando l’evidenza empirica, però, questa tesi non trova sostegno. Secondo l’economista, la crescente concentrazione è dovuta a un maggiore potere di mercato delle imprese.
Il libro contrappone l’evoluzione statunitense a quella europea. I mercati europei sono stati caratterizzati dalle trasformazioni seguite all’ingresso di nuove imprese, come Free Mobile nel 2011 nel mercato telefonico francese, o Ryan Air e Easyjet nel mercato del trasporto aereo, e dai conseguenti benefici per i consumatori. Una delle tracce del capovolgimento si riflette nella quota dei salari: negli Usa si è ridotta negli ultimi 20 anni a vantaggio dei profitti, mentre è rimasta stazionaria in Europa. Philippon calcola che la riduzione della concorrenza ha sottratto ai lavoratori Usa circa 1,25 trilioni di dollari.
Quindi, quali sono le lezioni che emergono dall’analisi di Philippon?
La prima è che bisogna cercare in ogni modo di ridurre le barriere all’entrata nei mercati. Senza l’ingresso di nuove imprese si paga nel tempo un costo in termini di efficienza. L’ingresso di nuove imprese può però portare al fallimento e alla chiusura di imprese esistenti. E ovviamente per i cittadini è più facile capire i costi sociali di un’impresa che fallisce rispetto a quelli di una che non nasce. Da qui le resistenze alle politiche pro-mercato a favore di quelle pro-business.
Una seconda lezione è che bisogna lasciare che le autorità pubbliche, governi e autorità di regolamentazione, possano sbagliare nei loro interventi. I mercati cambiano velocemente sotto la spinta della tecnologia. Attuare nuove soluzioni per tutelare la concorrenza richiede inevitabilmente un processo di tentativi ed errori. Chiedere a governi e regolatori di non fare alcun errore comporta un costo in termini di inerzia e passività.