In macroeconomia, la curva di Phillips è una relazione inversa tra il tasso di inflazione e il tasso di disoccupazione. Afferma che un aumento della disoccupazione risulta correlato a un relativo decremento del saggio dei prezzi cioè della domanda aggregata. Per molti anni accademici e studiosi hanno considerato la curva di Philips uno dei fondamenti macroeconomici delle loro analisi e ricerche. Ma negli ultimi anni è stato messo in crisi dall'evidenza empirica.
La disoccupazione è scesa a livelli molto bassi in numerose economie ‘avanzate’ (si fa qui riferimento ad aspetti quantitativi e non qualitativi del mercato del lavoro), mentre l’inflazione non sale. Si è così infranto l’obiettivo, o meglio l’idea fissa, di tutte le banche centrali di raggiungere il tasso d’inflazione del 2% (a lungo inseguito invano anche dalla Bce a guida Mario Draghi), inteso come manifestazione del corretto andamento della gestione monetaria e dell’economia.
Ma nel frattempo il mondo è cambiato. E ora si sta scoprendo che vi sono ragioni strutturali che modificano profondamente i dati che determinano i prezzi al consumo: l’invecchiamento della popolazione, il progresso tecnologico che diminuisce i costi di produzione, la globalizzazione (e lo sviluppo delle catene mondiale del valore) che ha fatto entrare nei nostri mercati merci a prezzi stracciati perché prodotte con salari bassi e un mercato del lavoro bloccato. E alla fine questi fattori hanno messo in crisi l’apparente inossidabile correlazione negativa tra inflazione e disoccupazione.
È forse giunto il momento di abbassare il target dal 2 all’1%? La questione non è esiziale. L’obiettivo sui prezzi al consumo è uno degli aspetti fondanti delle politiche monetarie e a cui è strettamente collegato, soprattutto in una fase come questa dove sia la politica fiscale che quelle monetaria sono chiamate a rispondere contro un nemico invisibile: il Covid-19.