Big Pharma tre anni fa ha rifiutato la proposta avanzata dall’Ue di lavorare ai vaccini contro agenti patogeni come il coronavirus. Lo sostengono Global health Advocates e Corporate europe observatory.
Le due organizzazioni non governative, una a Bruxelles, l’altra in Francia – entrambe analizzano l’impatto delle lobby delle imprese sulle decisioni delle politiche comunitarie – hanno elaborato il rapporto: “Nel nome dell’innovazione. Le imprese controllano miliardi nella ricerca dell’Ue e relegano in secondo piano l’interesse pubblico”.
“Siamo indignati per aver trovato la prova che la lobby dell’industria farmaceutica Efpia – si legge nel rapporto – non solo non ha considerato il finanziamento delle preparazioni biologiche (al fine di essere pronti per epidemie come quella causata dal Covid-19) come un “argomento di natura normativa” per l’Imi (il che significa che l’Imi avrebbe potuto cercare progetti di ricerca da finanziare), ma si è opposta affinché questa possibilità fosse inclusa nei lavori dell’Imi quando la Commissione Europea ne ha prospettato la possibilità nel 2017”.
Dietro le sigle – Imi ed Efpia – ci sono realtà che hanno un’identità ben precisa.
L’Imi (Iniziativa sui farmaci innovativi) è un partenariato pubblico-privato che mira ad accelerare lo sviluppo di farmaci migliori e più sicuri. Ha un budget di 5 miliardi di euro, composto da finanziamenti Ue e contributi da parte di enti privati e altri organismi. Il consiglio di amministrazione dell’Imi è composto da funzionari della Commissione e rappresentanti della Federazione europea delle industrie farmaceutiche (Efpia), i cui membri comprendono alcuni dei più grandi nomi del settore, tra cui GlaxoSmithKline, Novartis, Pfizer, Lilly e Johnson&Johnson.
L’Efpia ha sede a Bruxelles. Fondata nel 1978, rappresenta l’industria farmaceutica basata sulla ricerca che opera in Europa. Ha gestito un budget pubblico di 2,6 mld per la ricerca dell’Ue per il periodo 2008-2020 attraverso l’Imi, ma finora - sostiene il report delle due Ong - non è riuscito ad investire in aree di ricerca in cui il finanziamento pubblico è urgente e necessario.
Da quando il coronavirus Sars è entrato in scena nel 2003, il mondo della ricerca ha esortato ad accelerare lo sviluppo di tecnologie mediche per affrontare i virus di questo tipo. “In realtà è solo ora – spiega il rapporto -, con una pandemia globale in atto e con la mobilitazione di fondi pubblici di emergenza per affrontarla, che l’industria sta dimostrando la volontà di contribuire allo sviluppo dei farmaci e delle terapie”.
“L’industria farmaceutica si è comportata in modo simile per l’ebola – aggiungono le due Ong -. Solo quando è diventata un’epidemia nel 2014 l’Imi ha iniziato a finanziare progetti di ricerca rilevanti. Questo caso mostra come gli interventi tardivi quando un'epidemia è già in corso siano molto meno utili del tipo di bio preparazione che l'industria ha rifiutato”.