In tempi di pandemia i governi hanno riscoperto l’importanza di beni e servizi pubblici essenziali come la sanità, l’istruzione e la ricerca. Ma il punto è che sono il risultato di investimenti di lungo periodo. Richiedono pertanto una visione politica e una capacità di programmazione ben oltre il ciclo vitale dei governi.
Tutto cio’ stride con il progressivo schiacciamento sul presente della politica che negli ultimi anni abbiamo visto in Italia e non solo: il cosiddetto problema dello short-termism. Così, quando i tempi della politica e i tempi dello sviluppo divergono, l’agenda politica tende a essere occupata sempre più da interventi di breve periodo.
A partire dagli anni ‘80 i paesi avanzati (oltre ai membri Ocse sono inclusi Cina, Romania, Russia, Singapore, Sud Africa e Taiwan) hanno destinato una quota decrescente di Pil alla ricerca pubblica e una crescente alla ricerca privata. La spesa pubblica complessiva oscilla invece in risposta alle crisi, con un moderato trend discendente (interrottosi alla fine degli anni ‘90).
“Determinati contesti istituzionali influenzano le politiche fiscali e il livello complessivo di spesa pubblica – spiegano i ricercatori Andrea Filippetti e Antonio Vezzani -. Sistemi elettorali proporzionali (rispetto ai maggioritari) e forme di governo parlamentari (rispetto a quelle presidenziali) tendono ad aumentarla.”
In pratica, nei sistemi maggioritari il consenso politico è più legato a specifiche costituency elettorali, come ad esempio gli stati più determinanti o i collegi in bilico. “Questo porta i politici a investire relativamente di più in progetti mirati a porzioni specifiche dell’elettorato, rispetto a progetti sui beni comuni, che favoriscono la società del suo insieme – aggiungono i ricercatori -. Per contro, nei sistemi proporzionali, dove ogni voto conta, politiche pubbliche ad ampio spettro (ossia beni pubblici come la ricerca) sono politicamente più attraenti.”