Nei dibattiti economici ricorrono alcuni mantra. Uno di questi sono le riforme strutturali, spesso invocate come soluzione per buona parte dei mali dell’economia.
L’evidenza empirica mostra che le riforme adottate negli ultimi anni raramente sono riuscite a correggere in modo permanente le disfunzioni dei mercati: finanziari, del lavoro e dei prodotti. Per dirla in termini shakespeariani “tanto rumore per nulla”.
Resta comunque intatta la necessità di attuare misure volte a migliorare l’offerta di beni e servizi. Pertanto, le riforme strutturali che favoriscono l’accumulo dei fattori produttivi (lavoro, capitale fisico e tecnologico), il miglioramento della produttività e della regolamentazione dei mercati si confermano gli strumenti fondamentali per delineare un “modello produttivo”.
Tuttavia, un paese può essere abbondante nel capitale umano e tecnologico, ma non necessariamente raggiungere modelli di specializzazione in settori tecnologicamente avanzati ad alto valore aggiunto. Perché ciò accada occorrono riforme tra loro complementari, che mirino all’incremento della produttività e della crescita, piuttosto che all’aumento della flessibilità dei mercati del lavoro e dei prodotti.
La “grande crisi” dovrebbe averci lasciato un altro insegnamento. L’efficacia delle riforme dipende in modo sostanziale dal momento in cui sono introdotte: durante una fase recessiva del ciclo economico è più difficile che riescano ad incidere nel modo e nella direzione sperati.
Ciò che serve sono politiche pro-cicliche, non soltanto anticicliche.
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