All’inizio della sua carriera, l’economista Joseph Stiglitz trascorre un lungo soggiorno in Kenya, dove viene colpito da varie stranezze nel funzionamento dell’economia locale. Tra queste la mezzadria. E si chiede: come mai persiste un sistema così inefficiente? La ricerca di Stiglitz per risolvere questo paradosso lo porta successivamente a sviluppare le sue teorie fondamentali sull’informazione asimmetrica, per le quali in seguito gli verrà assegnato il Premio Nobel.
Allo stesso modo, l’economista Albert Hirschman si trova in Nigeria quando osserva un comportamento definito da lui sconcertante. La compagnia ferroviaria, a lungo monopolio pubblico, inizia ad affrontare la concorrenza di camionisti privati. Ma invece di rispondere a questa pressione affrontando le evidenti inefficienze, l’azienda si deteriora ancora di più.
Queste storie ci ricordano quanto sia importante il valore di poter osservare (e studiare) il mondo in tutta la sua varietà. Eppure, le principali riviste di economia sono popolate prevalentemente da autori che risiedono in una manciata di paesi ricchi. Inoltre, gli economisti provengono da istituti accademici e di ricerca di quegli stessi paesi. Il problema è che l’assenza di voci basate sul resto del mondo non costituisce soltanto un’iniquità, ma impoverisce la disciplina.
Secondo i dati raccolti da Magda Fontana e Paolo Racca dell’Università di Torino e Fabio Montobbio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, quasi il 90% degli autori nelle prime otto riviste a livello mondiale ha sede negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale.
Dato che questi paesi ricchi rappresentano solo circa un terzo del Pil globale, l’estrema concentrazione non può essere spiegata interamente da risorse inadeguate o da minori investimenti nell’istruzione e nella formazione nel resto del mondo – sebbene tali fattori giochino indubbiamente un ruolo.
In effetti, alcuni paesi che hanno compiuto enormi progressi economici negli ultimi anni continuano tuttavia a essere fortemente sottorappresentati nelle principali riviste. L’Asia orientale produce quasi un terzo della produzione globale, ma gli economisti che operano nella macroregione contribuiscono per meno del 5% agli articoli sulle principali riviste. Analogamente, le quote di pubblicazioni provenienti dall’Asia meridionale e dall’Africa subsahariana sono davvero modeste e significativamente inferiori al peso (ridotto) di queste aree nell’economia mondiale.
Al di là delle risorse e della formazione, l’accesso alle reti è fondamentale per la generazione e la diffusione della conoscenza. Se una ricerca viene presa sul serio dipende dal fatto che gli autori siano andati nelle scuole giuste, conoscano le persone giuste e viaggino sul giusto circuito delle conferenze. In economia, queste reti hanno sede prevalentemente in Nord America e nell’Europa occidentale.
L’obiezione prevedibile è che molti dei principali economisti di oggi provengono in realtà dai paesi in via di sviluppo. È vero, in un certo senso, che l’economia è diventata più internazionale. Il numero di ricercatori di origine straniera nei principali dipartimenti economici e reti di ricerca nordamericani ed europei è aumentato. Ma gli economisti di origine straniera in Occidente sono tipicamente assorbiti in un ambiente intellettuale dominato da questioni e preoccupazioni inerenti i paesi ricchi.
Ad aggravare la situazione la constatazione che la diversità geografica non è ancora un tema sul tavolo. Secondo Dani Rodrik, “l’economia non sarà una disciplina davvero globale finché non avremo affrontato anche questo deficit”.