Trecentomila miliardi di dollari. A tanto ammonta il debito globale detenuto da famiglie, imprese, banche e governi. Un macigno che oggi più che mai si fa sentire, visto il rialzo dei tassi di interesse. Ma i dati dell’Institute of International Finance mostrano un’apparente contraddizione: negli ultimi tre mesi il debito a livello globale è sceso di alcune migliaia di miliardi, per la prima volta dal 2018. Ma l’effetto è in buona parte attribuibile all’impennata del dollaro, valuta che si è decisamente apprezzata rispetto alla maggior parte delle controparti.
Se si confronta il dato con il Pil globale, il segno cambia e diventa positivo. Dunque, il debito globale sta continuando a crescere: ormai è tre volte e mezzo il reddito guadagnato annualmente, vale cioè poco meno del 350% del Pil mondiale. Prima della pandemia era quasi 30 punti in meno rispetto a oggi, all’alba della Grande Recessione del 2008 ben 70 punti. Il decennio e mezzo di tassi di interesse azzerati hanno favorito l’indebitamento, pubblico e privato.
Sono stati proprio i governi a contribuire maggiormente: dei quasi 70 punti percentuali in più rispetto a fine 2007, 45 sono frutto delle decisioni degli Stati. E con la recessione alle porte, i governi si troveranno costretti a intervenire. Ma questa volta gli aiuti pubblici non saranno (quasi) a costo zero. Bloomberg ha stimato che governi e imprese dovranno sborsare mille miliardi di dollari solo di interessi quando rifinanzieranno le proprie obbligazioni, se i tassi rimarranno pari a quelli di oggi.
Il rischio è di assistere a un aumento significativo delle bancarotte societarie; il che colpirebbe duramente anche il mercato del lavoro. Ma anche i governi non possono dormire sonni tranquilli. I Paesi emergenti sono quelli più a rischio. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, tra i Paesi a basso reddito ormai il 60% si trova in una condizione di “debt distress” o è a forte rischio di entrarci. E guardando all’Occidente, ciò che è accaduto nel Regno Unito è un evidente segnale di deterioramento della fiducia dei creditori. Per non parlare della fragilità dei conti pubblici italiani.