Lo Sri Lanka è alle prese con una crisi politica ed economica che minaccia di far sprofondare il paese asiatico nuovamente nella violenza. A ottobre il presidente Maithripala Sirisena ha deposto il primo ministro Ranil Wickremesinghe (accusandolo, tra le varie cose, di aver gestito male l'economia), poi ha sospeso il Parlamento e tentato di far insediare come capo del Governo un ex-presidente controverso, Percy Mahendra Rajapaksa. Ma il tentativo è stato bloccato dalla magistratura dell’isola.
I fatti avvenuti evidenziano comunque un passo indietro per il paese di 21 milioni di abitanti che ancora pagano il prezzo di una brutale guerra civile durata 26 anni e finita nel 2009.
Ma andiamo per gradi. Lo Sri Lanka, che ha ottenuto l'indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1948, ha cambiato il proprio nome da Ceylon a Sri Lanka nel 1972, quando il Buddhismo divenne la religione principale.Nella guerra civile che ne seguì rimasero uccise circa 100 mila persone.
Dopo il 2009, chiusa la pagina del lungo conflitto, è arrivata la crescita economica, soprattutto grazie ai prestiti resi disponibili dalla Cina che ha finanziato nell’isola importanti infrastrutture. Altri due punti che hanno spinto il Pil sono stati lo sviluppo del settore dei servizi e il turismo. L'isola tropicale è stata nominata come destinazione top 2019 dalla Lonely Planet. Gli arrivi - principalmente cinesi e indiani - sono gradualmente aumentati nel dopoguerra. Nel 2017 hanno segnato 1,3 milioni (+7%). Tuttavia, lo scorso anno, il Pil è sceso e ha toccato il minimo dal 2001.
Ma il principale rischio potrebbe essere un altro.Se riuscisse a tornare al potere dopo aver perso le elezioni del 2015, Rajapaksa rinsaldererebbe il nazionalismo religioso ed etnico.
Inoltre, Wickremesinghe stava cercando di riequilibrare le relazioni estere dello Sri Lanka verso l'India e il Giappone in alternativa alla Cina scelta da Rajapaksa. Ma sono stati proprio quei prestiti a condannarlo politicamente quando era premier. Fondi destinati a finanziare progetti, tra i quali la costruzione di un porto – gestito in perdita e poi venduto a un’impresa cinese - e di un aeroporto che è poco utilizzato. E il paradosso è che circa l'80% delle entrate governative ora è destinato a pagare i debiti contratti perlopiù con Pechino.