Con Donald Trump alla Casa Bianca e i suoi repubblicani al controllo di entrambe le Camere del Congresso, l’Europa non è mai stata così esposta ai capricci della politica commerciale statunitense.
Se Trump dovesse dare seguito alla sua minaccia di imporre tariffe fino al 20% sulle importazioni dal continente, l’industria europea subirebbe un duro colpo. Con oltre 500 miliardi di euro di esportazioni annuali verso gli Stati Uniti dall’Ue, la prima economia al mondo è di gran lunga la destinazione più importante per i beni europei.
Ma l’Europa sembra aver fatto poco per prepararsi al ritorno di Trump. La prima risposta della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen alla sua rielezione è stata quella di suggerire ai 27 di acquistare più gas naturale liquefatto (GNL) dagli Stati Uniti. Questo potrebbe far piacere a Trump per un po’, ma non è certo una strategia.
“L’incapacità dei leader europei di trarre insegnamenti dall’ultima presidenza Trump si sta ritorcendo contro di noi”, afferma Clemens Fuest, presidente dell’Ifo Institute di Monaco. Allo stesso tempo, Fuest avverte che Trump potrebbe non essere soltanto una cattiva notizia per l’Ue.
Se, ad esempio, portasse a termine i suoi piani, l’inflazione negli Stati Uniti potrebbe aumentare, costringendo i tassi di interesse a salire. Ciò rafforzerebbe il dollaro, il che andrebbe a vantaggio degli esportatori europei quando convertiranno le loro entrate statunitensi in euro.
Resta il fatto che “se il governo degli Stati Uniti manterrà questa promessa (di introdurre nuovi e massicci dazi, ndr), potremmo assistere a una svolta significativa nel modo in cui viene gestito il commercio internazionale”, ha affermato di recente Joachim Nagel, presidente della Bundesbank tedesca.
Ma facciamo un passo indietro. La velocità con cui l’Europa ha perso terreno rispetto agli Stati Uniti in termini di competitività economica dall’inizio del secolo è impressionante. Una delle principali cause è fotografata dall’incapacità del settore aziendale di innovare.
Le aziende tecnologiche statunitensi, ad esempio, spendono più del doppio rispetto alle aziende tecnologiche europee in ricerca e sviluppo (R&S). E, mentre le aziende negli Usa hanno visto un balzo del 40% nella produttività dal 2005, in quelle impegnate nella tecnologia europea è stagnante.
Questo divario è evidente anche nel mercato azionario: mentre le valutazioni del mercato azionario statunitense sono più che triplicate dal 2005, quelle europee sono aumentate solo del 60%.
La situazione è a dir poco critica. Tanto che “l’Europa sta rimanendo indietro nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura”, ha affermato Lagarde nel suo discorso di Parigi. Parole eufemistiche. L’Europa non è solo in ritardo, non è nemmeno in gara.
L’Europa non ha mai raggiunto il suo obiettivo di spendere il 3% del Pil del blocco in R&S, il principale motore dell’innovazione economica: la spesa da parte delle aziende europee e del settore pubblico rimane ancorata a circa il 2%, più o meno dove era nel 2000.
Ed è qui che entra in gioco la Germania. Da qui proviene la metà della spesa europea in R&S. E la maggior parte di quell’investimento confluisce in un settore: l’automotive. Sebbene ciò possa sembrare ovvio date le dimensioni del settore (il fatturato annuo dell’industria automobilistica tedesca è di quasi mezzo trilione di euro), non è quello l’ambito nel quale si può ottenere il massimo dal proprio denaro.
Questo perché le innovazioni nel settore automobilistico, come il miglioramento dell’efficienza del carburante di un motore, sono incrementali. In tal senso, sarebbe meglio creare prodotti completamente nuovi, come un iPhone o Instagram, che creerebbero anche un mercato altrettanto nuovo.
Se non altro, l’Europa è stata piuttosto coerente. Nel 2003, i principali investitori aziendali in R&S erano Mercedes, VW e Siemens, il gigante tedesco dell’ingegneria. Nel 2022, erano Mercedes, VW e Bosch, il produttore tedesco di componenti per auto.
Nel complesso, mettere tutte le uova d’Europa in un paniere ha funzionato piuttosto bene, finché poi il giocattolo si è rotto. Sebbene l’Europa rappresenti oltre il 40% della spesa globale in R&S nel settore automobilistico, le decantate case automobilistiche tedesche sono riuscite in qualche modo a perdere il treno dei veicoli elettrici.
Il predominio del settore automobilistico tedesco è a rischio perché la sua riluttanza a investire in veicoli elettrici ha spinto altri, in particolare Tesla e una schiera di produttori cinesi, a tuffarsi nella breccia. Mentre quelle aziende hanno investito molto nella tecnologia delle batterie e si sono assicurati preziosi brevetti, i tedeschi hanno lavorato per cercare di perfezionare il motore diesel. L’idea fino ad oggi non è apparsa vincente.
La crisi del mondo automobilistico tedesco è solo la punta dell'iceberg. Il paese sta lottando per far fronte a una serie di altre sfide complicate che stanno minando il suo potenziale economico. Tra queste, una società che invecchia rapidamente e la carenza di lavoratori altamente qualificati.
Essendo la più grande economia dell'Ue, le disgrazie economiche della Germania si stanno riverberando in tutto il blocco. E ciò che rende la crisi dell’industria automobilistica tedesca così difficile da gestire è che il continente non ha altro su cui contare.
Anche in questo caso il contrasto con gli Stati Uniti è netto. Nel 2003, le aziende che hanno speso di più in R&S negli Usa erano Ford, Pfizer e General Motors. Due decenni dopo, sono Amazon, Alphabet (Google) e Meta (Facebook).
Ma non ci sono solo gli Usa. Secondo una recente analisi della Bce, il numero di settori in cui le aziende cinesi competono direttamente con le aziende dell’Eurozona, molte delle quali sono produttori di macchinari, è aumentato da circa un quarto nel 2002 a due quinti oggi.
Sebbene l’Ue rappresenti una quota sempre più ridotta del Pil mondiale, resta al primo posto a livello mondiale per quanto riguarda la generosità dei sistemi di welfare dei suoi membri.
Tuttavia, mentre le prospettive economiche della regione peggiorano, gli europei sono destinati a un brusco risveglio. Paesi come la Francia, che ha avuto nel 2024 un deficit di bilancio del 6% (che salirà al 7% quest’anno), più del doppio del limite consentito per l’Eurozona, avranno difficoltà a mantenere uno stato sociale generoso.
Il problema è che quando gli europei si renderanno conto della nuova realtà, potrebbe essere troppo tardi per fare qualcosa.