Negli Stati Uniti la disuguaglianza è al massimo dal 1928 e la crescita del Pil rimane tristemente tiepida rispetto ai decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Secondo le ultime proiezioni, il deficit del bilancio federale raggiungerà i 900 miliardi di dollari quest'anno e supererà 1 trilione ogni anno dopo il 2021. E l’Fmi prevede una crescita negli Usa del 2,5% nel 2019 e dell'1,8% nel 2020, in diminuzione rispetto al 2,9% del 2018.
Secondo Joseph Stiglitz, oltre al binomio bassa crescita/alta diseguaglianza - alimentato da riforme fiscali sbagliate e da una globalizzazione perennemente orientata alla ricerca di rendite piuttosto che alla fornitura di servizi utili – c’è un problema ancora più profondo: la crescente concentrazione del potere di mercato. D’altronde, come ha detto il famoso venture capitalist Peter Thiel, "la competizione è per i perdenti".
Niente di tutto ciò fa ben sperare per l'economia Usa. L'aumento della disuguaglianza implica una diminuzione della domanda aggregata, perché coloro che si trovano in cima alla distribuzione della ricchezza tendono a consumare una quota minore del proprio reddito rispetto a quelli con mezzi più modesti.
Inoltre, dal lato dell'offerta, il potere di mercato indebolisce gli incentivi a investire e innovare. Le imprese sanno che, se produrranno di più, dovranno abbassare i loro prezzi. Questo è il motivo per cui gli investimenti rimangono deboli, nonostante i profitti record messi a segno dalle corporation americane.
A peggiorare le cose, il basso rapporto tra tasse e PIL dell'America - appena il 27,1% anche prima del taglio delle imposte di Trump - significa una carenza di denaro per gli investimenti nelle infrastrutture, nell'istruzione, nella sanità e nella ricerca di base necessarie per garantire la crescita futura. E, sì. In tal modo la disuguaglianza si ridurrebbe.