Crescono le aspettative politiche in merito allo sfruttamento del sottosuolo del Libano che, secondo stime potenziali basate su dati sismici, avrebbe riserve di gas naturale pari a circa 7 trilioni (milioni di miliardi) di metri cubi.
Il governo libanese il 14 dicembre 2017 ha approvato l’offerta di un consorzio di tre società – l’italiana Eni, la francese Total e la russa Novatek – per lo sfruttamento di due blocchi offshore, dopo tre anni di stallo, ma resta l’incognita sulle dispute geopolitiche in corso e sulla consistenza effettiva del petrolio e del gas presenti nel sottosuolo. Il programma di esplorazione del Libano si sta svolgendo in un contesto ad alto rischio: uno dei blocchi assegnato si trova in una zona di 860 chilometri quadrati di acque contese con Israele.
Le stime diffuse, ancora non confermate, potrebbero non costituire riserve commercialmente valide: secondo i dati di Richmond Energy Partners, i tassi di successo commerciale dell'industria per le esplorazioni tra il 2012 e il 2016 sono stati complessivamente del 31 per cento e del 7 per cento per le province di frontiera come il Libano. Su queste basi il rischio di un fallimento dell'esplorazione – che partirà non prima del 2019 - è alto e il viaggio verso la produzione è lungo: il consorzio si è impegnato a perforare due pozzi, uno in ciascun blocco. Probabilmente ci saranno pozzi asciutti.
I funzionari governativi libanesi hanno diffuso cifre di risorse potenziali che, però, sono state interpretate dai non esperti come riserve certe: nel dicembre 2013 l’allora ministro dell’Energia Gebran Basil aveva dichiarato che le entrate dal petrolio e dal gas avrebbero portato il suo paese alla “indipendenza economica”, coprendo il debito pubblico, creando posti lavoro e diffondendo ricchezza. Ma la strada per entrare a far parte del “club dei produttori di petrolio” è lunga e pericolosa per il Libano, che per arrivare fino a questo punto ha già dovuto affrontare numerose sfide interne.