Angela Merkel e Emmanuel Macron presenteranno la loro proposta di riforma europea entro luglio. Ma non possono ormai ignorare l'importanza crescente nei paesi dell’Ue dei partiti anti-sistema. Il populismo, diventato ormai mainstream, rischia di trasformare l’euro in un campo di battaglia, che vedrebbe crescere l’onta contro le procedure di infrazione e le sanzioni per disavanzo eccessivo imposte da Bruxelles.
Ma in assenza di sanzioni cosa assicurerà che i partecipanti all’eurozona rispettino i parametri? Questo è ciò che preoccupa la Germania. D’altronde le regole del gioco sono necessarie per affrontare l’insostenibile accumulazione di debito pubblico in un’unione monetaria. In assenza di sanzioni credibili, soltanto la minaccia dell’uscita coatta potrebbe disciplinare i paesi ribelli. Ma è un cane che si morde la coda. Spingere un paese fuori dall’euro avrebbe, infatti, conseguenze disastrose.
A questo punto si profila l’introduzione di meccanismi di risoluzione del debito interni, definiti e prevedibili. In altri termini, i paesi meno diligenti non avrebbero una copertura dell’Ue e dovrebbero seguire regole prestabilite. Questa opzione non è priva di rischi, ma è meno traumatica dell’uscita forzata. L’Europa dovrebbe scegliere il male minore.
Anche perché l’irreversibilità dell’euro è un falso mito anche se è utile credere che non sia così. Se imprese e risparmiatori iniziassero a speculare sulla prossima uscita, la fiducia nella moneta comune svanirebbe presto. Le persone sposterebbero i loro risparmi. Un euro tedesco varrebbe più di un euro francese, che a sua volta varrebbe più di un euro italiano. Ecco perché il presidente della Bce, Mario Draghi, nel 2012 ha dichiarato che avrebbe fatto “tutto il necessario” per preservare l’integrità della moneta unica.
E non sbagliava. La ristrutturazione del debito all’interno della zona euro era e resta il primo nodo da sciogliere.