La spesa per la difesa dei paesi dell’Ue è in costante crescita (+25% tra il 2014 e il 2020) e ha raggiunto i 198 miliardi di euro nel 2020 (pari a circa l’1,5% del Pil dell’Ue). Secondo l’economista Raul Caruso, a dispetto di tali iniziative comuni, la maggior parte delle spese militari rimane tuttavia gestita su base nazionale e l’industria europea resta caratterizzata da inefficienza e duplicazione di progetti e costi. Gli Stati membri fanno affidamento su ‘campioni industriali nazionali’ (per esempio, Leonardo e Fincantieri in Italia, Thales in Francia, Navantia in Spagna), spesso di proprietà statale, e si continuano a sviluppare iniziative separate.
Esemplificativo è il caso degli aerei da combattimento. Francia, Germania e Spagna nel giugno del 2019 – rileva Caruso - hanno firmato un accordo per sviluppare un jet da combattimento di nuova generazione, mentre Italia, Paesi Bassi e Regno Unito sono coinvolti nel progetto per la costruzione dell’F35 della Lockheed Martin. La Svezia sviluppa ancora il jet da combattimento Gripen, utilizzato peraltro da Repubblica Ceca, Ungheria e Croazia. Nel frattempo, nel 2019, Italia e Regno Unito hanno firmato un accordo per lo sviluppo del Tempest, un caccia a reazione di sesta generazione cui poi si è aggiunta la stessa Svezia.
Da questo esempio si intuisce perché negli ultimi anni a un aumento della spesa militare non sia corrisposto un maggiore impegno verso l’integrazione. Secondo i dati dell’Agenzia europea della difesa (Eda) – chiarisce Caruso - nel 2020 gli Stati membri hanno speso solo 4,1 mld su progetti collaborativi. Il dato è in diminuzione del 13% rispetto al 2019 e costituisce il terzo valore più basso registrato dall’Eda a partire dal 2005. In particolare, dal 2016 la quota di spesa allocata in progetti collaborativi europei è in diminuzione continua. In sintesi, vi è una tendenza alla minore collaborazione nonostante l’aumento della spesa militare.
Il motivo è lampante: la guerra è uno shock che necessita risposte di breve o brevissimo periodo laddove l’integrazione è un percorso di medio-lungo periodo con elevati costi di transazione. Nel breve periodo i governi si affidano a istituzioni e a strutture esistenti e quindi, aumentando la spesa, tendono ad amplificare la frammentazione già presente. Ma le divisioni rappresentano comunque un costo netto per l’Ue. Al contrario, quello di cui avrebbero bisogno i paesi membri dell’Ue è una politica di integrazione a livello europeo realmente efficace nell’ambito della difesa, che conduca a una razionalizzazione e quindi inevitabilmente a una riduzione della spesa militare e non viceversa.
In tale contesto la decisione presa il 21 marzo dai 27 membri – il via libera al ‘mini-esercito’ europeo con forze terrestri, marittime e aeree, ma anche cibernetiche – appare come una goccia nell’oceano. La nuova strategia di difesa europea ha come perno la costituzione di una forza militare di circa 5 mila soldati, da fare intervenire in casi simili all’evacuazione dell’aeroporto di Kabul, e un aumento della spesa militare (dall’1,5%, circa 200 miliardi di euro, al 2%) per poter effettuare autonomamente interventi militari entro il 2025. La cifra di 200 mld è circa quattro volte la spesa militare della Russia e corrisponde a quanto messo sul piatto della Cina nel campo della difesa. Il problema è con molta meno efficienza rispetto a Mosca e Pechino.
L’iniziativa di Bruxelles non sposterà dunque gli equilibri nel breve e medio periodo. Il discorso cambierebbe se l’Ue optasse per una politica estera comune. Ma su questo tema neanche l’invasione russa dell’Ucraina è riuscita a indurre l’Unione a fare quel passo, che invece sarebbe decisivo.