Thomas Panke è il proprietario di un negozio di giocattoli a Francoforte. E ha un canale su Youtube in cui recensisce piccoli mattoncini assemblabili. Quelli che milioni di bimbi chiamano ‘lego’, siano essi prodotti dal colosso danese oppure da altre aziende.
Panke si è visto recapitare dagli avvocati che tutelano i diritti di Lego (che ha il brevetto sui mattoncini dal 1958, poi scaduto nel 1978) una diffida a usare il termine ‘lego’ per definire i mattoncini dei concorrenti Cada, Cobi, Qman o Xingbao. Panke spesso elogia i concorrenti più economici del gigante dei giocattoli.
Si tratta di storie di bullismo aziendale, collegate al cosiddetto ‘effetto Streisand’. La cantante statunitense tentò di fermare la pubblicazione di una fotografia aerea della sua tenuta. L’immagine faceva parte di una serie di 12.000 foto che documentano i danni da erosione sulla costa della California. Tuttavia, quando Streisand citò in giudizio il fotografo e il sito web che aveva pubblicato le immagini per 50 milioni di dollari di danni, fan e media vennero a conoscenza del problema, la foto della villa fu condivisa migliaia di volte in rete. Nel goffo tentativo di sopprimere la notizia, la star di Hollywood finì per renderla virale.
Tornando a Panke, non è solo. O meglio non è il solo. Un suo collega, Thorsten Klahold, proprietario di un negozio di giocattoli in Bassa Sassonia, è stato sommerso di denunce da Lego. E ora Klahold ha avviato una campagna per chiedere che il termine ‘lego’ sia liberalizzato. La sua tesi è che la stragrande maggioranza delle persone lo usi per definire un genere, come si usa ‘jeep’ per intendere un fuoristrada.