I difensori dei “diritti del lavoro” evidenziano da tempo che gli accordi commerciali internazionali sono dominati dagli interessi di aziende e multinazionali, ma non tutelano quelli dei lavoratori. Ad esempio, il preambolo dell'intesa che ha istituito l'Organizzazione mondiale del commercio menziona – soltanto - l'obiettivo della "piena occupazione".
Nel caso degli accordi commerciali macro-regionali (fra stati), al contrario, l'adesione ai diritti fondamentali del lavoro è diventata sempre più esplicita. Ad esempio, nell’Accordo di libero scambio nordamericano (Nafta), firmato nel 1992, le norme sul lavoro sono considerate, seppur in modo secondario. Da allora, gli accordi commerciali siglati degli Stati Uniti hanno in genere incluso un capitolo sul lavoro. Ma non più di quello.
I paesi in via di sviluppo, dal canto loro, hanno spesso resistito all'inclusione delle norme sul lavoro negli accordi commerciali per timore che le economie avanzate abusino di tali disposizioni a fini protezionistici. Ad esempio, il nuovo accordo Usa-Messico-Canada prevede che il 40-45% di un'automobile sia fabbricato da lavoratori retribuiti non meno di 16 dollari l'ora. Le aziende automobilistiche possono certamente permettersi di pagare salari più alti, e questa disposizione da sola non può minare le prospettive di occupazione in Messico. Ma stabilisce un piano salariale irrealistico, imponendo un livello retributivo molto superiore a quello medio del paese centro-americano. Il che fa apparire la condizione inserita nell’intesa un’operazione cosmetica.
Fino ad oggi, di fatto, le clausole sul lavoro negli accordi commerciali sono rimaste una foglia di fico. L'opinione è dell'economista turco Dani Rodrik, secondo il quale un effettivo cambiamento richiederebbe un nuovo approccio. E un primo passo in tal senso potrebbe essere quello di considerare i diritti del lavoro alla pari con gli interessi commerciali.